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Visualizzazione dei post da 2009

Ma sono campioni?

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E adesso chi glielo va a spiegare agli operai. Che i campioni per cui hanno lavorato guadagnano fior di milioni. Non briciole, numeri a sei zeri. E loro, oltre a farsi il mazzo nella catena di montaggio, sentono sulla loro pelle la beffa: cassa integrazione e/o licenziamenti. Schumacher va alla Mercedes con uno stipendio di 7 milioni di euro (si dice che in realtà siano il triplo), la produzione della Classe C vira in America. Gli operai sono in subbuglio. Idem da noi: Valentino Rossi porta a casa titoli e superstipendi, 66 operai della sede italiana della Yamaha a Lesmo (due chilometri da Arcore, ma nessun videomessaggio) sono in cassa integrazione. Per scongiurare il licenziamento hanno passato il Natale sul tetto dell’azienda a meno dieci gradi. Hanno cercato the Doctor per ricevere un gesto di solidarietà: “il campione si è fatto negare” (Unità 22.12 – Corsera 23.12). Sul tetto dello stabilimento avevano messo uno striscione: “Che spettacolo”. Campioni si può essere anche fuori dai

Più che multe, briciole

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Viviamo di cifre e ogni cosa ha un suo prezzo. Siamo o non siamo nella società dei consumi massificati? Solo che nel calcio dei milionari quando si parla di ammende inflitte alle società sembra che il tempo si sia fermato alle lire degli anni Cinquanta. Le ultime dai palazzi dei giudici sportivi: al Napoli 15 mila euro per il laser a Sorrentino, portiere del Chievo (incasso della partita quasi 600 milioni di euro!). Peggio ancora in casa Juve: per reiterati cori razzisti contro Balotelli – neanche in campo – un’ammenda di 10 mila euro. Siamo alle briciole. Con l’aggravante che un raggio laser sanziona più di un “Se saltelli muore Balotelli”. Ma peggio di tutti è andata al Potenza in prima divisione. 7500 euro per cori razzisti nella partita contro il Giulianova. Sanzione giusta, vista la gravità. Solo che quella cifra è il doppio dell’incasso del pomeriggio. A Torino manco se ne accorgono di un ammanco di 10mila euro, a Potenza no. Domanda spontanea: qualcuno ha mai pensato di alzare l

Sopra la panca...

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Per fortuna che è stato l’anno della crisi economica. L’anno dove un allenatore bastava e avanzava, causa contenimento dei costi. In realtà, 10 panchine saltate su 18 se non sono un record poco ci manca. Col conteggio che rischia di essere per difetto vista la traballante situazione di Ferrara e Ballardini. Ma se un tempo erano in prevalenza le piccole a rendere indigesto il panettone, ora anche le medio-grandi si adeguano: Roma, Napoli, Udinese e Palermo (questa fa storia a sé, c’è Zamparini). Con vittime anche illustri, Spalletti e Donadoni su tutti. Il problema è che all’estero ci stanno copiando. Quando si dice del “made in Italy”. Dopo l’esonero di Simoni all’Inter, dopo una vittoria sul Real Madrid, pensavo di averle viste tutte. Mi devo invece ricredere. Il Mancester City ha fatto fuori Mark Hughes vittorioso contro il Sunderland. Al suo posto lo sceicco Mansour ha scelto Roberto Mancini. Giusta scelta: uno sceicco s’intende meglio con un nababbo (vedi stipendio faraonico incass

Crisi della Juve, crisi di Torino

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Si parla tanto della crisi della Juventus. È inevitabile, non ne eravamo abituati. Dopo la discesa negli inferi della B, la resurrezione sembrava cosa fatta. Così non è stato, almeno per ora. I cugini del Torino non se la passano meglio: hanno speso tanti soldi per vedersi a metà classifica tra i cadetti. Ma attenzione: questa non è solo la crisi di due squadre, ma di una città e di un modello. Di una Fiat che a fatica rialza la testa ed è costretta a chiudere Termini Imerese. Di un sindaco, Chiamparino, quasi emarginato dai compagni del Pd. E di uno schiaffo che le sta arrivando in pieno volto: la candidatura del leghista Roberto Cota, che per chiarire ha criticato il Risorgimento per come ci è stato insegnato a scuola. Quasi un affronto per una regione che ha dato i natali alla destra cavuriana (liberale, non populista). I fasti delle Olimpiadi 2006 sembrano lontani. Così come lo spirito sabaudo, sommerso di cori razzisti nella curva intitolata alla correttezza del calcio (Scirea). S

Un mister in jeans e maglietta

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Per Alberto Malesani, mister del Siena, è tutta una questione di stile. Se giri in giacca e cravatta fai carriera, se vesti jeans e maglietta dura sfondare. E i risultati, si chiederà qualcuno? Vengono dopo, lo stile prevale. “Non sono un allenatore da giacca e cravatta. Nel calcio italiano la forma conta quanto i risultati. Eppure in altre parti del mondo è diverso. Negli Stati Uniti i più grandi manager indossano blue-jeans e scarpe da ginnastica. Da noi la frase classica è: “E’ bravo ma non ha lo stile da grande club”. Pazienza, continuerò a indossare jeans e scarpe da ginnastica” (Gazzetta 19.12.2009). Colpa del suo vestiario, quindi, l’esonero a Parma nel 2001, la retrocessione in B col Verona nel 2003, l’esonero a Modena l’anno dopo, e le due annate magrissime a Udine (subentrato a Galeone) e Empoli (arrivo a stagione in corso al posto di Cagni, poi richiamato). Arrivato a Siena ha detto: “Siamo animali da guerra, ho vissuto ambienti molto più caldi” (Unità 25.11.2009). Era vesti

Un Paese poco normale

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La sera prima una persona accende la tv, si sintonizza su La 7, vede “Operazione off side” e si chiede: “ma in che mondo ha navigato (o sta navigando) il calcio?”. Il giorno dopo riaccende la principale madre dei mali calcistici, la tv, va su Italia 7 Gold (galeotto quel 7) e chi si trova davanti? Il protagonista indiscusso della sera prima, Moggi. Non in veste di imputato – i giudici ci insegnano che i processi si fanno nei tribunali – ma di OPINIONISTA. Quello che commenta, dà pareri, giudica i comportamenti. Il cortocircuito è totale. Non solo la politica non espelle le persone di dubbia moralità (no, i trans di Marrazzo qui non c’entrano), la tv non è da meno. In attesa del processo penale di Napoli, Moggi è stato condannato dalla giustizia sportiva per 5 anni con proposta di radiazione. In una società sana uno così scomparirebbe, quanto meno per la vergogna. In Italia va tranquillamente in tv, scrive su Libero , viene ascoltato…

“Operazione off side”

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Lascia il segno “Operazione off side”, la ricostruzione su Calciopoli andata in onda ieri sera su La 7. Ma lascia ancor più il segno il dibattito che ne è seguito tra Beha, Cucci, Bucchioni, Mughini, Della Valle. A parte i primi due più possibilisti, per gli altri Calciopoli è stata solo una montatura che ha colpito uno solo: il povero Moggi. Il filmato è il punto di vista dell'accusa, è evidente. Nessuno in studio, però, che ponesse alcuni “inspiegabili” interrogativi: perchè Moggi dava telefoni non intercettabili con utenze svizzere (e relative ricariche) ai designatori Bergamo-Pairetto? Cosa intendeva Lotito quando lasciava trapelare una possibile combina chiesta da Della Valle? Perchè Collina si vede con Galliani di nascosto nel locale di Meani il giorno di chiusura? Perchè due poliziotti vanno a prendere Moggi all'aeroporto e lo scortano in un locale? La tv non è un tribunale, d'accordo. Chi fa il giornalista però queste domande se le deve porre.

Dirigenti da cartellino rosso

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Il calcio è bello per i diversi punti di vista. Una volta c’era il Bar Sport, oggi anche il web. In questi giorni si fa un gran parlare del silenzio di Mourinho. Anche quando se ne sta zitto tiene banco. Se poi invece di parlare è protagonista di un vivace diverbio con un giornalista, evidente che a dettare l’agenda sia sempre “Special ou”. Nessuno invece che abbia criticato le dichiarazioni del suo secondo, Beppe Baresi. L’Inter gioca a Bergamo una prova opaca, lui con chi se la prende? Con l’arbitro, colpevole di avere espulso Sneijder per due ammonizioni giustissime (secondo me). “La seconda ammonizione ha condizionato il resto della gara. E' l'unico fallo fatto da Sneijder nelle ultime partite (la prima ammonizione era stata per proteste, nda). Un fallo a centrocampo, che non creava nessun problema. Considerato che era il secondo giallo l'arbitro poteva lasciare correre benissimo… Peccato, perchè la squadra meritava la vittoria”. Evviva la sportività.

Nostalgia tatuata

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Un tempo era il marchio di una tribù, quella dei carcerati. Oggi è divenuto uno status symbol. Così va il mondo, i tatuaggi si adeguano. Qualche tempo fa una copertina di Sportweek aveva fatto specie: il riminese Matteo Brighi era ritratto a petto nudo, senza niente d’inchiostro addosso. L’anticonformismo vive anche di piccoli gesti, il suo ne era un esempio. Tutto il contrario di Antonio Mirante, 26 anni, portiere del Parma. Lui li mette in mostra e se ne vanta: “Ho quattro tatuaggi, questo in particolare (sul braccio sinistro, nda) mi aiuta a non sentire la nostalgia. I miei genitori vivono a Castellamare di Stabia” (Gazzetta dello Sport, 12.12.2009). Il calciatore oggi dice di tutto di più (stupidaggine più e/o meno), il lettore registra senza batter ciglio. Anche quella della lontananza da casa che oggi si batte con un tatuaggio o con lo “you and me” di Vodafone. Giulio Onesti parlava di “ricchi scemi”, riferendosi ai presidenti. Mi sa che oggi sono da un’altra parte.

Eroi in casa d'altri

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“Non so se lo rifarei”. Amarissime la parole di Bepi Pillon mister dell’Ascoli, che ha ordinato ai suoi di far segnare la Reggina. Tifosi, presidente e commentatori di 90° minuto si sono scagliati contro, il mondo del calcio e addirittura il New York Times l’hanno applaudito. Sono certo che se il gesto di Pillon l’avesse fatto qualche altra squadra, presidente e tifosi dell’Ascoli avrebbero elogiato il fatto. Da noi siamo tutti sportivi, purché in casa d’altri. Un po’ come un napoletano testimone d’un omicidio di camorra: il napoletano s’adegua all’ambiente omertoso, tutta l’Italia condanna, ma se fosse stata al suo posto avrebbe fatto altrettanto. Belli gli eroi ma a debita distanza. L’omicidio Ambrosoli insegna. Ma erano gli anni ’70. Vogliamo fare un atto di coraggio? Bene diciamo le cose col loro nome: se uno simula diamogli chiaramente del disonesto. Henry contro l’Irlanda? Disonesto patentato. Balotelli che riceve una gomitata in petto non in volto? Disonesto senza attenuanti. Ca

Evviva la Provincia

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Nel giorno del fair play dell’Ascoli in B (chissà cosa avrebbe detto Rozzi?), abbiamo assistito a uno degli spettacoli più brutti della storia del calcio: Juve – Inter. Vince la Juve, forse ha giocato meglio, perde il calcio, ormai ci siamo abituati. Emozioni col contagocce, gioco fallosissimo, mister che fa polemica (applaude) per una punizione quasi a metà campo (che stile Mourinho!), ciliegina con rissa in campo e cori da sesto mondo (neppure il terzo ne è degno). Il calcio italiano è questo, meglio rassegnarsi. E soprattutto non stupirsi perché appena si va oltre confine si fanno figuracce. Il bel gioco e il divertimento stanno in provincia, a Chievo (lo stipendio di Eto’o vale l’intera rosa), Parma, Bari, Genoa, a volte Napoli. Aggiungo, per tifoseria, Cesena. Al Frosinone ieri ha rifilato quattro pappette. A un certo punto pensavo di essere al Nou Camp, ero “solo” al Manuzzi. Giaccherini, carriera tra Forlì e Bellaria, mi pareva Messi. Per favore, dimentichiamo Balotelli.

Cuore matto

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Terrore delle aree di rigore, idolo delle bavaresi (e non solo), testimonial della riviera romagnola. Questo il passato prossimo. Il presente è un altro: oggetto del mistero che non la butta dentro neanche nella formazione delle riserve del Bayern. Che Luca Toni fosse in fase calante è un dato (24 reti il primo anno, 12 il secondo, zero quest’anno), che finisse per essere il capro espiatorio di una stagione no per i bavaresi è una novità. Mister Van Gaal, che non l’ha mia visto di buon occhio, gli ha dato il benservito. E così il 32enne campione del Mondo, Scarpa d’oro appena due anni fa, dovrà lasciare la formazione tedesca. In Germania spopolava una canzone che aveva per protagonista proprio il calciatore. Nell’allenatore nel Pallone 2 (film insulso) il povero Oronzo Canà va in Germania per comprare Toni, gli viene invece rifilato Little, il cantante di Cuore matto. Che sia la musica il futuro di Toni? Ovviamente Luca.

Totti milion

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Che stress chiamarsi Francesco Totti e avere la vita quotidiana contrassegnata da impegni. Neanche il tempo di godersi la tripletta messa a segno col Bari che subito è spuntata la Vodafone col nuovo spot natalizio. La star è la bella Ilary, lui per una volta fa il mediano, anche se ben retribuito (100mila euro a spot). A breve poi si saprà se andrà in porto il suo prolungamento di contratto fino al 2014 (5milioni netti a stagione), giusto per dare un calcio alla crisi, tanto più in una società che nessuno vuol comprare perché piena di debiti. Poi c’è la questione del suo sito internet (i diritti d’immagine sono della Roma, lui li reclama), e il nuovo sponsor visto che con la Diadora ha chiuso da un anno (500mila euro a stagione). Insomma, messo da parte il purtroppo frequente lettino del medico, una vita da stressato tra palloni, contratti e babbi natale. Consoliamoci col “Totti carpe diem?”. “Lo sai che non conosco l’inglese”. La risposta non l’ha data a uno spot!

A DOMANDA NON RISPONDO

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Valerio Cleri vince la medaglia d’oro nella 25 chilometri di fondo di nuoto. Una gara massacrante, lunga oltre cinque ore in mezzo al mare. Cleri ha la rabbia addosso di un bronzo sfumato d’un soffio nella 10 chilometri. Arriva al traguardo stanco morto, gli si piazza davanti il solito cronista tv che non trova di meglio da chiedergli: “regaleresti un urlo di gioia ai telespettatori?”. Cleri garbatamente declina l’invito. Insistono con la richiesta di un sorriso per le telecamere. Il nuotatore risponde che preferisce sorridere dentro. Non sazi, la Mazzocchi-Band’s ci riprova un’altra volta. Stessa risposta. Forse avrebbe potuto rispondere con un “vaff…”; vista l’insistenza in tanti avrebbero compreso. Non l’ha fatto. “Dove sono finiti i giornalisti sportivi?” si chiedeva tempo fa Aldo Grasso. Eccoli, sono lì a bordo vasca a fare domande idiote a campioni di stile (libero e non solo).

DA ZIGONI A ZIGONI

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Genio e sregolatezza. Nome cognome: Gianfranco Zigoni. A Verona campeggiava uno striscione “DioZigo, pensaci tu”. Lui aveva risposto: “Io non credo in Dio è lui che deve credere in me”. Alcuni giorni fa Avvenire gli ha dedicato una bella intervista. Motivo: ancora oggi nel calcio c’è uno Zigoni che fa parlar di sé: suo figlio. Nel Milan più sparagnino della storia berlusconiana, Gianmarco (18 anni) è una delle speranze del calcio italiano. Il paradosso sta nella squadra dove giocherà, quei colori rossoneri a cui suo padre nel 1973 fece svanire il sogno scudetto. Era il 20 maggio il Milan di Rocco gioca a Verona: perde per 5-3, il titolo va alla Juve per un punto. “Alla fine, quel giorno ho pianto con tutti i ragazzi del Milan, perché non mi è mai piaciuto sparare sul cadavere…”, ha confessato Zigo. Una ferita ancora aperta che chiede al figlio di chiudere: “Gianmarco vinci lo scudetto, così estingui per sempre quel debito di tuo padre con il Milan”.

UN EROE BORGHESE

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Ieri sera La 7 ha mandato in onda il film di Michele Placido, “Un eroe borghese” (1995), dedicato alla figura di Giorgio Ambrosoli. Già l'aver scelto la prima serata per un film del genere è stato quasi un evento (della Rai non si hanno tracce: Rai 1 era occupata col Festival di Castrocaro!). Poi la data, trent'anni dalla morte dell'avvocato milanese (11 luglio 1979). Un pezzo di storia d'Italia. Meglio, di vergogna. Chiamato a liquidare le malefatte finanziarie di Michele Sindona, Ambrosoli non si lasciò intimidire da nessuno (governo compreso) tirando dritto per la sua strada, che coincideva con quella della giustizia. Al suo funerale nessuno del governo presenziò, solo esponenti della Banca d'Italia. Placido descrive bene la storia, ispirata dal libro di Corrado Stajano. Anche il governo, Andreotti in primis, ha avuto le sue colpe. Ecco, penso ad Andreotti che tutte le mattine va a messa e si inginocchia davanti al crocifisso e mi viene una gran voglia di ateismo

GENERAZIONE PRECARIA

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Se la televisione latita sul mondo reale – troppo pessimista e foriera di cattive notizie secondo il nostro primo ministro – a riportare un po’ luce sul mondo d’oggi ci pensa il cinema. Che da alcuni anni ha posto l’accento sul mondo del lavoro, e, più nello specifico, sul precariato. Per citarne un paio, Eugenio Cappuccio in “Volevo solo dormirle addosso” con Giorgio Pasotti, Paolo Virzì in “Tutta la vita davanti” con Sabrina Ferilli. Aggiungo “Generazione mille euro” di Massimo Venier. Qui l’argomento del lavoro viene trattato in maniera leggera, tanto è vero che la pellicola è stata catalogata tra le commedie. La problematica, però, è terribilmente attuale. Un laureato con dottorato, genietto in matematica, lavoratore precario con contratto di sei mesi nell’ufficio marketing di una grossa azienda. L’impossibilità di pianificare la vita, la strada sbarrata nell’università (avanza il nipote di un senatore). Cosa aggiungere? Nulla, se non farsi un sorrisetto per tirarsi su.

SEGRETI ITALIANI

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Davvero strana la sorte del romanzo spy italiano. Malgrado non sia mancata la materia in casa nostra – lunga la serie di attentati e presunti golpe senza colpevoli – solo negli anni ’80 il genere ha iniziato a prendere piede in Italia. Prima il monopolio era appannaggio di scrittori francesi e anglosassoni. Dico questo perché mi è capitato di leggere “L’inganno” (Tropea, 2003) di Andrea Santini. Ebbene, Santini è il primo scrittore italiano a comparire nella collana Mondadori “Segretissimo”, uno dei primi quindi a pubblicare spy story all’italiana. Il libro merita e dimostra che i nostri scrittori mistery non hanno nulla da invidiare a Le Carrè. La storia è ambientata in una Italia sconvolta dagli avvenimenti del G8 di Genova, tra neoterrorismo informatico e complotti di Stato, che investono anche le gerarchie ecclesiastiche. A indagare un poliziotto, Aldo Palmieri, dibattuto tra l’amore per il figlio e il dovere della divisa.

A FUROR DI DEBITO

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In campo è stato un campione di classe e allegria. Fuoriclasse lo è tuttora, malgrado pancetta, giacca e cravatta. Michel Platini, presidente dell’Uefa, per l’ennesima volta ha usato il tocco giusto di fronte al sistema calcio. Più che “sistema” bisognerebbe parlare di bancarotta e debiti (il tanto blasonato Manchester, modello europeo, ha 960,3 milioni di debiti). Sì, perché il calcio non solo è malato ma non riesce a trovare l’antidoto al suo male. “E’ qualcosa di anormale, che mi dà fastidio. Non capisco come si possano spendere 90 milioni per un giocatore”, ha detto Platini. Aggiungo: la cifra sale a 217 milioni con Kakà, Benzema, Albiol, Negredo. Lo stipendio di Cristiano Ronaldo è di 13 milioni netti di euro a stagione (Ibrahimovic ne becca 12, poverino, voleva anche andare via!). Sogno di leggere Real Madrid sconfitto dal Getafe, lo Sporting Gijon e il Real Valladolid (tutte e tre salve per un pelo). Poi tutti in pizzeria, tanto paga Florentino Perez.

MOGGI-ITALIA

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Nel caso Moggi-Bologna c’è un po’ di tutto del sistema Italia. La notizia data per sondare la reazione dei tifosi (e reazione è stata!), in attesa di smentita ufficiale (un certo premier insegna, sul dire e smentire); il ricorso a un personaggio quanto meno di dubbia fama morale (squalifica sportiva di cinque anni, imputato di frode sportiva a Napoli), che ha coniato un nuovo termine vocabolariesco, “sistema Moggi” e/o “moggiopoli”; il paradosso di una squadra, il Bologna, nell’era Gazzoni in prima linea sul fronte anti-Moggi, ambiguo nell’attuale gestione Menarini; la corte a un 72enne (gli auguri il 10 luglio) emblema della gerontocrazia del pallone (altro che nuove leve!). Insomma tutto l’armamentario raccontato da Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo ha fatto bella mostra. Tutto si è poi sgonfiato come una bolla di sapone, l’amaro in bocca però rimane. Come le tasse: perché pagarle se tanto prima o poi un condono arriverà?

MORATTI DOUBLE FACE

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L’Inter stappa bottiglie di spumante per il 17° scudetto conquistato. Tra i più meritati, tra i meno memorabili. Rimarrà più per le esternazioni di Mourinho che per il gioco in campo (mediocre al massimo). Ma tanto basta per mandare in visibilio il suo presidente, al terzo (non quarto) successo di fila dopo anni di delusioni e fegati ingrossati. Chissà che preso dalla bolgia dei festeggiamenti Moratti non decida di pagare la multa di 1500 euro che il giudice di pace gli ha inflitto per cori razzisti a San Siro contro il Napoli un anno fa. Per ora si è rifiutato. Strano tipo Moratti: fa l’antirazzista quando si tratta di Balotelli, non quando la sua curva espone uno striscione sul Napoli “fogna d’Italia”; sostiene Emergency e sperpera fior di milioni in brocchi patentati; fustiga il Moggi che aveva avvicinato per ingaggiare; fa il petroliere ma dice di essere ecologista. In psicologia si chiamerebbe schizofrenia. Nel calcio profilo di un uomo vincente.

BORGHI FOLLI

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Sempre a proposito di arbitri, il Borghi ha totalizzato un guinness: ben 54 mesi di squalifica. Questo per una giornata di ordinaria follia, domenica scorsa nello spareggio contro il Corpolò. In palio il salto in Prima categoria. I riminesi si impongono 2 a 1 ai supplementari. Al termine succede il finimondo. Il dirigente che doveva “difendere” l’arbitro (in gergo, addetto all’arbitro) colpisce il guardialinee con un pugno (per fortuna che doveva fargli da scorta!): 2 anni di squalifica (un po’ pochini). Un giocatore spintona sempre il guardialinee, lo insulta e gli getta in faccia la maglietta: un anno (pochino anche qui). Altri due giocatori non sono da meno, sette mesi. Il presidente della squadra dice, “abbiamo sbagliato ma la colpa è tutta degli arbitri: erano in malafede”. La domanda ora è una: adesso questa gente cosa farà la domenica? Niente più calcio come valvola di sfogo (e di frustrazione). Povere mogli, adesso tocca a voi!

ABBASSO GLI ARBITRI

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Finale di Coppa Italia. Squadre inedite, quanto mediocri nello spettacolo offerto. Vince la Lazio ai rigori, perde un certo modo di intendere il calcio. Soprattutto in chi lo racconta. La telecronaca del duo Cerqueti-Bagni è l’emblema di quanto in basso sia caduto questo sport. Inizia la partita Campagnaro (Sampdoria) cerca di rifilare una gomitata a Foggia (Lazio): per il cronista è colpa dell’arbitro (Rosetti) che non vede il gesto e non espelle il giocatore. Campagnaro se la cava con “è un combattente”. Altri scontri a metà campo: la colpa è sempre dell’arbitro che non li sanziona nel giusto modo. Verso la fine la chicca: presunto rigore per la Lazio, Delio Rossi entra in campo (a partita in corso) di alcuni metri, i telecronisti sorridono per l’accaduto: ben gli sta all’arbitro che non ha sanzionato il presunto rigore. Di appellativi di inciviltà a Rossi, nessuna traccia. Un calcio che vive solo di cronache arbitrali è uno sport povero. I suoi cronisti ne sono lo specchio.

IL FASCINO DEL RIVOLUZIONARIO

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Merita di essere visto il film di Soderbergh dedicato al Che. Suddiviso in due pellicole (l’argentino e guerriglia), ho visto il secondo. Racconta il periodo più difficile di Guevara, quello della guerriglia in Bolivia, terminato con la sua morte. La bellezza del film sta nel non cadere nella scontata visione mitologica, classica figurina leggendaria divenuta addirittura gadget commerciale. Soderbergh dà una visione umana del personaggio, col suo carisma ma anche con le sue debolezze e la sua solitudine. Ne vien fuori un personaggio animato da forti ideali rivoluzionari e convinto assertore della guerriglia, incapace però di capire una popolazione contadina che di lotta non ne vuole sapere. L’appoggio dato dai contadini ai militari boliviani ne è l’emblema. Il fascino del Che, però, rimane intatto: poteva adagiarsi sugli allori e sui successi di Cuba, ha preferito una vita tutta dedita agli ideali. La storia ne annovera pochi di personaggi così.

RAZZISMO ALL’ITALIANA

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D’ora in poi andare allo stadio e urlare “sporco negro di merda” sarà più facile. L’importante è non farlo troppo spesso, sennò arriva la recidività. La sentenza dell’Alta Corte del Coni non dice proprio questo, la sostanza però non muta. La razzista-story è questa: pesantissimi cori contro Balotelli, un turno di squalifica al campo della Juve, e, con grande lezione di stile bianconero, ricorso della società. Risultato: le porte prima chiuse, ora vengono riaperte. Una sentenza sconvolgente. Che conferma ancora una volta il concetto di giustizia da azzeccagarbugli in Italia. Se un segnale forte lo si voleva dare, è arrivato: ma nella direzione opposta del buonsenso. Anche se era difficile aspettarsi qualcosa di buono da questo calcio che butta a mare la serie B (è nata la Premier italiana) per papparsi tutti i 900 milioni di euro dei diritti tv. D’altronde cosa vuole questo Treviso che fa un intero campionato con 16 milioni di euro, stipendio di un solo giocatore dell’Inter?

ADDIO ROTELLA

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Per fortuna il calcio non dimentica. Soprattutto chi ha indossato una maglia con onore e ora si trova discutere col proprio mister partite più celestiali. Nel match di ieri a Bologna, il Genoa non ha dimenticato Franco Rotella, ala destra della gestione Scoglio. Se n’è andato nei giorni scorsi a 42 anni, colpito da una leucemia. Non è un nome che ha lasciato chissà quale impronta nel calcio, eppure lo ricordo bene. Il Genoa giocava a Cesena, e quest’ala destra faceva scintille. Uno a fianco mi chiese chi era. Risposi: “Non mi sembra Ruotolo, non l’ho mai visto”. Scopro così che si chiamava Rotella. Il Genoa vinse una rete a zero, l’anno non me lo ricordo. Mi ricordo però la bella impressione di quel giocatore. Scomparso così prematuramente come altri gialloblù: Fabrizio Gorin, Andrea Fortunato, Gianluca Signorini. Ora sta indagando Guariniello. Chissà che non ci sia qualcosa a legarli, oltre alla maglia indossata.

FRANCO, IL MAGO

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È un personaggio che piace Franco Nero. La prima fila del San Biagio l’ha confermato: tutte (o quasi) donne cinquant’enni. Sensibili al coetaneo, compagno di numerose serate al cinema e alla tv, e al fascino di un uomo a cui non fa difetto l’amor proprio. A Cesena ha presentato il suo “Mario, il mago”. Girato in Ungheria racconta la storia vera di un paesino sconvolto nel 1990 dall’arrivo di un imprenditore italiano di scarpe che delocalizza la sua produzione. Le scarpe per un sammaurese hanno sempre un qualcosa di particolare. Qui si aggiunge dell’altro: il passaggio dal comunismo al capitalismo di una piccola comunità, che inizia a conoscere consumi, diversi modi di produrre e persone dalla cultura nuova. La follia finale della protagonista la dice lunga su quale sia stato lo sconvolgimento. È interessante notare che Nero poco si vede in Italia. Infatti ha raccontato di ricevere ovunque offerte, tranne da noi. Altro caso di fuga di talenti?

LA SPOSA TURCA

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Decisamente bello e forte nei contenuti “La sposa turca”, il film proiettato mercoledì scorso nella sala Gramsci nella rassegna sull’intercultura al femminile. Una storia ambientata in Germania (Amburgo), che ha per protagonisti due turchi: il 40enne Cahit, la 20enne Sibel. Due disadattati sociali che infatti si conoscono in un istituto di sopravvissuti al suicidio: lui vive solo in funzione di alcool e droga; lei non sopporta le rigide convenzioni turche della sua famiglia. Finiscono per sposarsi, anche se non si amano. Ma la storia e la convivenza finisce per farli incontrare per davvero: nel cuore e nello spazio (a Istambul). Orso d’Oro a Berlino nel 2004, è un film sul difficile modo di vivere in terra straniera. Non è una pellicola a sfondo sociale, bensì introspettivo. Racconta il male di vivere non esclusivo appannaggio dell’Occidente, testimonianza che tutto il mondo è paese anche nei suoi dolori.

BREVE FIACCO RITORNO

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È la prima volta che leggo un libro di Mignon Good Eberhart. E devo dire che non mi ha suscitato un grande entusiasmo. “ Breve ritorno ”, uno dei classici proposti in edicola da Repubblica, ha il limite della scontatezza. Della suspense a comando, incapace di suscitare quello scatto di interesse che per un romanzo giallo è vitale. La storia è quella di tre ragazze (due sorelle e una cugina voce narrante) felici nell’essersi rifatte una vita dopo la morte di Basil Hoult (marito di Alice, una delle due sorelle). Tranquillità e agiatezza economica scandiscono i loro giorni fino a quando non ricompare in vita colui che si pensava morto, appunto Basil. Si tratta in realtà di un “breve ritorno” perché dopo poche ore viene trovato morto a due passi da casa. Chi è l’assassino? Spuntano le ipotesi, la polizia indaga, gli intrighi amorosi si infittiscono. Insomma, il solito plot con un po’ di fiacca in più. Non certo degna del miglior giallo che si rispetti.

DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO

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Uno dei personaggi più pubblici del mondo può silurare qualcuno perché ha reso pubblico un qualcosa? Capita anche questo. E ancora una volta nella mitica Inghilterra. Anche se gli attori sono un italiano (Briatore) e un portoghese (Paulo Sousa). Il primo è il presidente dei Qeens Park Rangers, il secondo ne è stato l’allenatore. Fino a pochi giorni fa, prima di essere esonerato per «aver divulgato informazioni confidenziali e riservate», la motivazione. Che abbia rivelato qualcosa di segreto sulla Renault, o su presunti schemi? No. Sousa si è lamentato a voce alta perché la società ha ceduto l’attaccante Dexter Blackstock al Nottingham senza essere stato informato. Briatore – sei allenatori in due anni – gli ha ricordato che i panni sporchi si lavano in casa. Mica come quelli della Gregoracci, quelli sì rigorosamente pubblici. D’altronde vuoi mettere il completino col pizzo della bella Elisabetta con la tuta sudata di un Sousa qualsiasi?

AMNESIE INGLESI

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Mentre il mondo del calcio è unito nel levare alto il grido di dolore per l’abbandono di Adriano (perché poi compatirlo, mica glielo ha detto il dottore di giocare?), in Inghilterra hanno deciso di spararle grosse. Dimenticando aplomb e sportività di cui vanno fieri, un parlamentare europeo (Richard Corbett) ha raccolto 10mila firme. Nessun disegno di legge all’orizzonte ma la richiesta all’Uefa di consegnare al Leeds la Coppa delle Coppe del 1973. L’aveva vinta il Milan a Salonicco in una delle finali più brutte che si ricordino (1 a 0, gol di Chiarugi). Secondo il politico ci fu un arbitraggio a senso unico a favore del Milan, tale da far sospettare qualcosa di losco. Ma Corbett, suvvia, perché non sei andato ancora più indietro, magari al 1966, anno di vittoria mundial inglese grazie a un gol fantasma? E a Maradona cosa facciamo, gliela vogliamo tagliare quella mano dopo il Messico? Corbett è Laburista: che sia arrivata anche là la crisi della sinistra?

IL FASCINO DI ALESSIO

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Anche Cesena non ha saputo resistere al fascino di Alessio Boni. Il Caravaggio o il Puccini che tanto piace alle donne. Anche se oltre che bello è bravo. Un po’ come Kim Rossi Stewart. Al San Biagio per il Backstage Festival ha fatto il pieno. Ha parlato di come è diventato attore: faceva il piastrellista a Bergamo, non gli piaceva, vagava insoddisfatto tra una cosa e l’altra, finché a 22 anni è rimasto folgorato a teatro. Ma è parlando del linguaggio che ha dato il meglio: “il modo di parlare oggi cambia velocemente, ogni 6-7 anni. Gassman parlava bene nel ’64, oggi il suo linguaggio sarebbe anacronistico, dovrebbe essere aggiornato. Il problema è che la contemporaneità è troppo veloce, appena l’afferri ti scappa. Siamo bombardati da tante cose che hanno fatto sì che la soglia d’attenzione sia diversa”. E ancora: “Il Grande Fratello non è negativo in sé. Il problema è che c’è solo questo!”. Evvai Alessio.

LE ARGUZIE DI PERRY

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Interessante l’iniziativa di Repubblica che ha deciso di ripubblicare i primi gialli della collana Mondadori. Un’immersione nella buona lettura, sempre che il genere sia di gradimento. Di recente ho letto “Perry Mason e l’avversario leale” di Erle Stanley Gardner. Lo scrittore americano è l’inventore del celebre avvocato indagatore, reso famoso grazie a un telefilm di successo. La storia è semplice. Due sorelle (Margherita e Carlotta Faulkner) con un’azienda di vivaistica di fiori vengono insidiate dal loro principale concorrente (Arrigo Peavis), che non si fa scrupolo nel voler acquisire la loro catena di negozi. Peavis, sfruttando la debolezza nel gioco del marito di Carlotta e attraverso alcuni amici fidati, riesce ad avvicinarsi al pacchetto azionario di maggioranza dell’azienda Faulkner. Nel mezzo ovviamente c’è un omicidio, tanti indiziati e la risoluzione del problema grazie a Perry Mason. Una storia semplice ma non per questo una storia banale.

L’EUGENIO NAZIONALE

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Maglione verde, barba bianca accompagnata dal solito occhiale, incedere lento, estremamente ragionato. Eugenio Scalfari è un’autorità nazionale, Cesena ha risposto a dovere al Palazzo del Ridotto (a proposito, audio pessimo!). Doveva presentare il suo ultimo libro, “ L’uomo che non credeva in Dio ”, in realtà ha raccontato un po’ di tutto. Difficile non rimanere affascinati da una personalità che ha fatto la storia del giornalismo militante. Uno oggi preoccupato perché “l’opinione pubblica non esiste più”, e perché “è l’indifferenza che ammazza”. Aggiungendo, laconico: “oggi anche parte della sinistra è indifferente”. Ha ricordato i meriti del Pd di Veltroni – “ha raggiunto il 33% con un partito nato in pochissimo tempo, e che praticamente non esisteva” – lanciando una stoccata al nemico di sempre, sir Silvio, “ha l’adorazione della propria immagine”. Impossibile dargli torto.

AUGURI TRAP

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Il suo sacco da tempo porta con sé quel famoso gatto. Quello che gli ha donato sette vite come ai felini. Mister Trapattoni compie oggi 70 anni. Non li festeggia da pensionato, ma sulla panchina dell’Irlanda prossima avversaria dell’Italia. Un simbolo del calcio, accusato di strenuo difensivismo, paradossalmente tra i primi allenatori global del pianeta (10 scudetti vinti in quattro stati). Il suo Strunz ha fatto il giro del mondo, così come i fischi con le dita, e le sue celebri frasi (“Sia chiaro che questo discorso resta circonciso tra noi”). Malgrado abbia vinto tanto due i rammarici: la bruciante sconfitta ad Atene contro l’Amburgo nel 1983 (due anni dopo vinse a Bruxelles, ma quella fa storia a sé); il flop con la nazionale italiana, con l’arrivo dell’altra Corea. Per il resto una carriera internazionale da urlo: 1 coppa delle Coppe, 1 Campioni, 1 Intercontinentale, 3 Uefa. Scusate se è poco.

C’ERA UNA VOLTA ENYINNAYA

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È stato una delle tante “scoperte” dell’Inter. Lo avevo lasciato al dicembre di dieci anni fa con la maglia del Bari, dove aveva fatto il fenomeno insieme al giovane Cassano. Risultato: Bari 2 - Inter 1. Il suo nome è Ugo Enyinnaya. Nigeriano, forza della natura, una delle tante promesse del calcio finito nel nulla. Di lui avevo perso le tracce, anche se al bar quando si parla di signori nessuno “scoperti” dall’Inter il suo nome spesso ricorre. Lo ha rintracciato l’inserto Sportweek che gli ha dedicato una bella intervista (“Io che potevo essere Cassano”). Adesso gioca nell’Anziolavinio in Eccellenza. Prima ha fatto il giramondo: dopo Livorno e Foggia, è andato in Polonia dove ha giocato senza prendere lo stipendio. Racconta che lo sbaglio più grande della sua vita è stato fidarsi di procuratori disonesti: poteva avere un contratto di 3 anni in Ungheria, gli dissero che gli avrebbero trovato di meglio. In realtà l’hanno abbandonato. Il calcio purtroppo è anche questo volto oscuro.

SPECIAL ULTIMO

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Chi ama il calcio e tifa Inter non può che essere deluso della prima di Champions contro il Manchester United. Speravamo di vedere all’opera i nerazzurri, siamo stati sommersi dall’onda rossa degli inglesi. Una lezione di tattica, tecnica, in una parola di squadra. L’incredibile però sta nei commenti di oggi. Il senso generale è: “c’è ottimismo nel ritorno in Inghilterra, il risultato di 0 a 0 ci favorisce”. Ottimismo? Dove lo si trovi rimane un misero, vista la partita a senso unico a Milano. Per informazioni chiedere alla Roma due anni fa: andata 2-1 per i giallorossi, ritorno 7-1 per i Blues. Poi c’è la questione Mourinho, nemico da sempre di Alex Ferguson. All’uscita dal campo non si sono neppure salutati. Anche se lo Special One ha confessato che “il giorno prima della partita gli ho mandato una bottiglia di vino in albergo, una bottiglia da 300 sterline, e gli ho scritto: Arrivederci a Manchester”. Bel gesto, ma comunicare il prezzo è da “Special ultimo”!

IL GRANDE JABBAR

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Nel 1968 aveva rinunciato alle Olimpiadi per protesta contro il predominio bianco. Quarant’anni dopo si ritrova un nero alla guida del suo paese. Ne è passata di acqua sotto i ponti per la stella del basket, Kareem Abdul Jabbar. Quello del gancio cielo, quello a cui avevano vietato le schiacciate perché era troppo alto. Ma anche quello appassionato di storia, quello impegnato per i diritti civili. Alcuni giorni fa (17.02.2009) il Corsera gli ha dedicato una bella intervista. Archiviati i tanti record (38.387 punti in 20 stagioni), ora allena i giovani. Giovanotti alquanto viziati e bizzosi a sentir lui: “Pensano di sapere già tutto, sono insofferenti a qualsiasi osservazione. Saltano, schiacciano, e solo per questo credono di essere dei fenomeni. Poi, che la squadra perda di 20 punti, a loro non interessa”; “I giocatori guadagnano molto, e da subito, ma hanno perso la possibilità di imparare il gioco, e i suoi valori etici, in una situazione senza stress”. Jabbar sei un grande!

SENSO DI COLPA ARBITRALE

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Notevole la lezione di calcio che i brasiliani hanno dato ai campioni del mondo. Hanno fatto vedere che la tecnica ancora paga. Eccome, se paga. Tutto il mondo se n’è accorto. Tranne i nostri vertici del calcio. Che hanno sì riconosciuto lo strapotere verdeoro, ma un appunto all’arbitraggio lo hanno fatto. Impossibile che un italiano non parli di una giacchetta nera. È nel nostro dna. Quasi una malattia. Petrucci presidente del Coni ha detto: “Loro hanno meritato. Ma dobbiamo notare, a proposito di arbitri, che il gol di Grosso era regolare. Prendiamo atto ed accettiamo". È vero, la rete di Grosso era buona, ma è anche vero che la partita è stata a senso unico. O, come si diceva una volta, a porta unica. Perché stupirsi di questi vertici che stanno allo sport come il cavolo sta alla merenda. Difficile pretendere cultura sportiva se dall’alto non arrivano buoni esempi.

CONTRORDINE: LA SPAGNA NON E’ IL PARADISO

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Contrordine amici sportivi: la Spagna non è più quel paradiso calcistico che ci avevano raccontato. Altro che modello organizzativo di club e nazionale, riassunto nello slogan di mister Aragones, “liga de las estrellas”. Tutta falso: gli iberici stanno soccombendo dai debiti. La cifra è astronomica: 627 milioni di euro, più 4,9 milioni alla previdenza. Valencia, Saragozza, Santander e Bilbao sono in bancarotta tecnica, Real Sociedad, Espanol e Villareal sono al limite dell’indebitamento. Una debacle a cielo aperto, acuita da ben 233 denuncie di calciatori che non percepiscono lo stipendio pattuito. Insomma, la patria di Zapatero è di fronte a un crac di proporzioni immani, dovuta a una “eccessiva sproporzione fra guadagni e spese”, ha detto un esperto spagnolo. Chissà cosa stanno pensando a Madrid, sponda Real, il cui sogno nel cassetto rimane Kakà. Per tranquillizzare il fisco il Presidente Florentino Perez alla domanda avrebbe già risposto “Kakà chi?”.

UN CALCIO AL DOPING

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Il calcio è sempre stato allergico all’antidoping. In realtà tutti gli sport lo sono sempre stati. Il calcio, è innegabile, di più. Forse perché gli zeri degli assegni sono maggiori. Fatto sta che giocatori presi col nandrolone si sono fatti pochi mesi di squalifica. In questi giorni, però, siamo all’assurdo. Due giocatori (Possanzini e Mannini) si presentano in ritardo agli esami, si beccano un anno senza calcio. Il ritardo è dovuto alla sfuriata negli spogliatoi di Cosmi e Corioni per la sconfitta con il Chievo. Ma tutto questo ha una logica? Si va dalla follia di un ciclista belga, Van Linden, che si ritrova a casa un controllo a sorpresa, a poche ore dalla morte del figlio di pochi mesi; a due giocatori in ritardo di una ventina di minuti squalificati d’un anno. Mi chiedo: ma se in ritardo ci fossero finiti un Totti, un Cristiano Ronaldo o un Ibrahimovic, le cose sarebbero andate così? Non penso, quelli oltre che calciatori sono aziende.

BATTISTI VAL PIU’ DI UN DRIBBLING

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Siamo alle solite. Laddove la politica è impotente, fa ricorso allo sport. Nella speranza che una partita, una stoccata o una nuotata possano cambiare qualcosa. Pazienza poi se dietro quella partita, quella stoccata o quella nuotata ci siano mesi di sudore e preparazione nel silenzio. Pazienza, la politica glamour di oggi vive di parole, di slogan, e tutto ai politicanti è permesso. Prima avevano chiesto il boicottaggio dei giochi in Cina, adesso dell’amichevole Italia-Brasile. In Cina la colpa erano i diritti umani, col Brasile il caso Cesare Battisti. Incapaci di riportarlo in Italia i politicanti sperano nel gesto degli sportivi. Perché lo sportivo è quello che allieta le loro domeniche in tribuna vip, ovviamente senza pagare il biglietto. Ma lo sportivo all’occorrenza può anche essere la panacea alla loro (cronica) incapacità. Battisti in Italia val bene una serata senza i dribbling di Kaka e Ronaldinho. A proposito: a quando un appello a Mogol?

IL DIVO HA FATTO NOVANTA

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Ha compiuto oggi la bellezza di 90 anni. E’ Giulio Andreotti. Il giornalista, Massimo Franco, gli ha dedicato un libro che ho finito di leggere da poco: “ Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un’epoca ” (Mondadori, 2008). Come racconta Franco, Andreotti è un sopravvissuto: a due guerre mondiali, sette papi, monarchia, fascismo, Prima e Seconda Repubblica. E’ stato un tutt’uno col potere: sette volte presidente del consiglio, ha ricoperto svariati ministeri (Esteri, Difesa, Finanze, Tesoro…). Il libro svela il suo lato umano. Finito di leggerlo, però, non mi ha fugato il dubbio di fondo. Il suo doppio volto: accusato di pesantissime colpe (la sentenza della Cassazione non lo scagiona del tutto dal reato di mafia) e amico di strani figuri (Lima, Sindona), è stato il delfino di De Gasperi, ha conosciuto papi, leader mondiali e ha guidato l’Italia per quasi cinquat’anni. Ha ragione Beppe Grillo: di lui si saprà qualcosa solo quando sarà aperta la sua scatola nera.

L’ANZIANO E IL SUO CANE

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La “Valigia dei sogni” su La 7 sabato scorso ha tirato fuori un’altra bella sorpresa cinematografica: Umberto D. (1952) per la regia di Vittorio De Sica. “Capolavoro del cinema neorealista” per Morandini, è un film sulla solitudine dell’anziano, che non arriva alla fine del mese, e che ha quale unico amico il proprio cane. Si chiama Flaik, Umberto D. fa di tutto per abbandonarlo, ma non ci riesce: è parte di lui. Il film quando uscì fu osteggiato dall’allora sottosegretario al cinema Giulio Andreotti con una celebre stroncatura: “i panni sporchi si lavano in casa”. Vietato raccontare la storia di un vecchio, tra l’altro ex funzionario di ministero, economicamente indigente. Un po’ come fa oggi il premier: a tutti raccomanda di sorridere, anche se la crisi impera. De Sica invece andò oltre (quanti registi oggi lo farebbero?), e prese quale protagonista un anziano borghese (Carlo Battisti) che attore non era. Memorabile la scena dell’elemosina davanti al Pantheon.