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Il calcio alla sbarra di Beha

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E se Oliviero Beha avesse ragione? Se fosse vero che il fil rouge che ha accompagnato il calcio in questi decenni è stato il malcostume, il voler arrangiarsi a tutti i costi, alla faccia dello sport inteso come semplice “gioco”? Se tutto ciò fosse vero ci sarebbe da preoccuparsi. Perché il pallone non sarebbe altro che una messa in scena teatrale, con attori farlocchi e regole violate, al solo scopo di tenere occupate masse altrimenti arrabbiate. Calcio come valvola di sfogo, “formidabile arma di distrazione di massa”. Come suo solito, non usa mezzi termini Oliviero Beha nel suo “Il calcio alla sbarra” (Bur, 2011, pp. 710, euro 11,90), volume che prosegue il lavoro iniziato cinque anni fa con “L’indagine sul calcio”. Altro che De Coubertin col suo “l’importante non è vincere ma partecipare”, qua pare che tutti vogliano soltanto il successo, costi quel che costi. Un esempio? Prendiamo lo scandalo del calcio scommesse del 1980. Giocatori dai grandi nomi vengono accusati di truccare le p

Un azzurro che non sgualcisce

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Secondo tassello di una trilogia, “ Il fazzoletto azzurro ” di Corrado Augias stupisce per il suo doppio binario: frenetico, piazzaiolo, dilemmatico nel contesto in cui si svolge la storia (anno 1915, poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia); lento e flemmatico nell’incedere dei suoi protagonisti, capeggiati dall’agente segreto Giovanni Sperelli. Augias scrive una spy story velata di giallo, lontana anni luce dallo stile anglosassone dei maestri Le Carre e Forsyth. Se in questi ultimi è la suspance a lasciare incollato il lettore alla pagina, Augias si inserisce pienamente nel filone “made in Italy”: gli omicidi, gli avvenimenti, il racconto, non sono mai fini a se stessi ma parte essenziale del contesto storico in cui avvengono. È questa la peculiarità del giallo italiano (Macchiavelli, Lucarelli…), il suo essere sociale e storico. E spesso attuale, malgrado il passare degli anni. Come nel caso del “Il fazzoletto azzurro”, pubblicato negli anni Ottanta. Proprio ieri sera Mario I

Moviola

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Il risultato non torna mai indietro. Eppure, lei, la moviola, è sempre lì a dettare legge, macchinario infernale della verità, più abile dello sguardo umano. Delizia degli appassionati che si nutrono della linfa dell’errore (d’altronde, non è il bello del calcio?), croce delle giacchette nere (ormai multicolori) spesso nell’occhio elettronico del ciclone. La moviola nacque dalla polvere di gesso di un Inter – Milan, anno 1967: Rivera calcia, la palla ricade dentro o fuori la riga? L’arbitro convalida, il giornalista della Rai Carlo Sassi, nella Domenica Sportiva di Enzo Tortora, si traveste da Archimede e scopre che quel pallone non era entrato. Tre anni dopo la moviola diventa rubrica fissa e addirittura nel 1972 Concetto Lo Bello ammette, davanti all’immagine impietosa, un suo errore. Passano gli anni e l’importanza della moviola cresce in proporzione al giro di soldi e al peso della tv sul pallone. Biscardi la invoca in “gamboo”, il sistema non acconsente ma ufficiosamente la usa. L

Biscardismo

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“Per favore, parlate solo due o tre alla volta”. E più alzate la voce, meglio è. Biscardi è l’inventore della chiacchiera da Bar Sport portata nelle case di milioni di persone: l’importante è la partigianeria, il chiasso, il parlarsi addosso. È stato definito, “Genio del mediocre” (Beccantini), “Specchio più sincero del calcio italiano (Aldo Grasso), “Brera dei nostri tempi di analfabetismo televisivo” (Curzio Maltese). L’inventore dello sgub un suo pregio ce l’ha: l’autoironia, il non prendersi troppo sul serio. Un po’ come questa storiella che circola su di lui. Un giornalista incontra un amico e gli annuncia che dirigerà un nuovo giornale, L’Eco di Roccacannuccia . “Come scrittore di costume avrò Biagi”. “Enzo?” “No Matteo, il figlio della mia portinaia. Invece per gli editoriali politici mi sono assicurato Montanelli”. “Indro?” “No, Giacomo, fa il barbiere ma ha l’hobby della scrittura e parla sempre di politica. Penso anche a una terza pagina con Fallaci”. “Oriana?” “No, Concetti

Ala Destra

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Un tempo prendeva il volo lungo la fascia con dribbling funambolici, piroette e cross dal fondo, oggi è semplicemente scomparsa. Non c’è più. Estinta da un tris di numeri da non confondere col gioco del Lotto: 4-4-2. Fernando Acitelli ne ha sancito un primo isolamento nel libro “La solitudine dell’ala destra”, il sacchismo ne ha segnato il tramonto definitivo col suo modulo prediletto. L’Italia ha avuto ali che hanno fatto scuola: i due baffi di Torino (Claudio Sala e Causio), il “brasiliano” Bruno Conti, più di recente Donadoni (giocatore dai “ghiribizzi geniali” secondo Brera). Il numero era il 7, e una loro finta valeva il costo del biglietto. Nel mondo, il doppio passo di Garrincha è stato leggenda, così come genio e sregolatezza di George Best. Oggi pullulano ruvidi interni di centrocampo e le poche ali rimaste si impomatano i capelli e fanno i fighetti da pubblicità (Beckham e Cristiano Ronaldo). E pensare che la prima rabona in fascia porta la firma di un numero 7 poco conosciut

Doping

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Il doping nel calcio? Mai e poi mai. È il refrain che ha assillato per anni gli amanti della pelota, finché un dì un boemo dal cognome Zeman, non denunciò che nel calcio c’erano troppe farmacie. Apriti cielo e fascicoli di procure, con quel Guariniello da Torino deciso a vederci chiaro. Si scopre così che il laboratorio antidoping dell’Acqua Acetosa di Roma effettuava sì controlli sui calciatori, ma farsa. Ciclisti torchiati in piena notte sin sotto le coperte di casa, calciatori con le urine scambiate come un barbatrucco di Silvan. Ma la fantascienza degna della miglior collezione di Urania arrivava dalle giustificazioni dei pallonari colti con le analisi alterate. Il riccioluto Fernando Couto incolpò della sua positività uno shampoo galeotto, giustificazione comprensibile vista la folta chioma. Marco Borriello diede la colpa a una pomata contro un’infezione vaginale della compagna Belen (beato lui). Mutu sniffò polvere bianca perché preso dall’ansia della prestazione con una porn

L'insolito giudice di Simenon

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È un Maigret insolito quello del romanzo “ La casa del giudice ” (Adelphi, pp. 145, euro 7,00). Soprattutto perché confinato nella lontana periferia della Vandea, non si sa per quale misfatto. Parigi è lontana, così come la sua vivacità, eppure l’ispettore dimostra di sapersi adattare al lento e noioso quotidiano di un paesello, fatto di partite a carte al bar, il tempo bizzoso, boccali di birra e un insopportabile compagno d’arme innamorato della propria brillantina. A riportalo alla vita, per paradosso, ci pensa un insolito omicidio in casa di un giudice, a L’Aiguillon. Altro paesello, che vive di cozze, dove tutti si conoscono, stranamente abitato da un giudice dal passato a Versailles e con due figli dalle tante problematiche nel passato e nel presente. Una strana simbiosi si crea tra l’ex uomo di legge (il giudice) e il tutore dell’ordine (Maigret): sono due personaggi le cui leggi non stanno solo nei codici ma nel loro essere. Sono di un altro mondo rispetto a quel micro universo

Artusi e quell'odore di chiuso

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Come cambiano i tempi. Siamo alla fine dell’Ottocento, c’è un personaggio che si è fatto una posizione economica che gli consente di non lavorare più e di dedicarsi all’hobby preferito: la cucina. Per i più è ancora un signor nessuno, romagnolo d’origine, vuole pubblicare un libro-raccolta di ricette, anche se non trova un editore, ed è costretto a cavarsi di tasca propria i soldi per stamparlo. Oggi, a cent’anni dalla sua morte, il personaggio è venerato da tutti, mette insieme mondo accademico e gusti popolari, ed è elevato al rango di padre della cucina italiana. Strana parabola, quella dell’Artusi. Fisico imponente, baffi a manubrio, scapolo sino all’età di 90 anni. Gastronomo per passione, insieme alla sua fedelissima Marietta, la governante che l’ha accompagnato lungo il corso della sua vita. Cultore delle lettere, con due pubblicazioni poco considerate dalla critica. E soprattutto, investigatore. Proprio così. Era il tassello che mancava nel variegato puzzle delle definizioni a

Il delitto etico di Harvey Garrard

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Guardando all’attuale situazione e alla caduta dell’etica pubblica e privata, può far riflettere anche un piccolo libro come “ Il delitto di Harvey Garrard ”, scritto dal giallista inglese Oppenheim negli anni ’30. Un giovane aristocratico avvezzo alla bella vita, Garrard, si trova sulle spalle l’azienda di famiglia, che lascia in altre mani sino al giorno nel quale se la ritrova sul lastrico. Come fare per risollevarne le sorti? Prendere illegalmente dei soldi, sottratti a una persona morta, quale prestito d’onore, e fare della speculazione finanziaria. In gioco c’è un’azienda da salvare, posti di lavoro da difendere, una tradizione aziendale di decenni da onorare. Oppenheim ci dà prova di un personaggio che pur utilizzando mezzi poco leciti, nell’insieme appare come un eroe positivo. In fondo Garrard quando fa qualcosa d’illecito ne sente il peso della coscienza, sia individuale (la sua etica) sia sociale (lo scandalo del contesto). Proprio il contrario di oggi, dove etica pubblica

Abatino

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Da giovani ingenui pensavamo che si trattasse di un (piccino) allievo di Sant’Antonio Abate, eremita in qualche sperduto posto della terra. E invece, altro che luogo sperduto, l’abatino se ne stava nei moderni templi del Novecento, a calciar palloni, disegnando parabole ad effetto e tocchi di genio. Amato dalle folle, ma inviso al patriarca del giornalismo sportivo, Gianni Brera, che ne rimarcava l’inadeguatezza della razza italiota al gioco da esteti. Siamo inferiori di fisico?, e allora adeguiamoci al difensivismo opportunista, sosteneva Giuan. Catenacci e contropiedi a go-go, per classe e tecnica meglio rivolgersi altrove. E chi era stato folgorato da una madre natura che gli aveva offerto un paio di piedi buoni e il velluto nelle idee, beh, erano cavoli suoi, aveva semplicemente sbagliato paese. L’altro Gianni d’Italia, Rivera, ne ha saputo qualcosa, sempre ferocemente criticato dal Giuan padano. Troppo lezioso, troppo poco avvezzo al sudore, in una parola… abatino. Un commedia uma