Spimi, Vittorio
"Perchè oggi non allena?", La Voce 20 settembre 2010
A Cesena, chi ha buona memoria, ricorda ancora le sue asfissianti marcature sui centravanti, e quella storica promozione in serie B, stagione 1967/68, che porta anche la sua firma. Ma è soprattutto nei sette anni a Bari che la sua carriera ha preso il volo: esordio in serie A, fascia di capitano e ancora oggi tra i primi dieci per numero di presenze con la maglia dei pugliesi. Non pago, smessi i calzoncini, ha deciso di indossare tuta e fischietto guidando quasi tutte le panchine della Romagna e dintorni. Vittorio Spimi, 67 anni all’anagrafe ben portati, più che vivere di ricordi, si sente come un professore messo forzatamente in pensione, desideroso di trasmettere il suo sapere ai giovani d’oggi. E soprattutto il suo bagaglio di esperienza al servizio di un mondo dirigenziale col quale ha avuto più d’un conflitto. Ci incontriamo in un bar a Rimini, e ne vien fuori una piacevole conversazione che scorre via tranquilla tra calcio di ieri e di oggi, e che si anima solo quando l’argomento tocca il “suo” Riccione.
Perché oggi Spimi non
allena?
“Perché non mi ritrovo in questi dirigenti d’oggi. Anzi,
pseudo-dirigenti che non sanno neanche se il pallone è rotondo o quadrato: solo
perché tirano fuori i soldi e sanno gestire bene le loro aziende, pensano di
essere competenti anche di calcio. Negli ultimi anni mi sono trovato di fronte
persone di questo tipo, quindi meglio dire basta. La mia carriera di giocatore
e allenatore l’ho fatta e sono più che soddisfatto”.
Impensabile un suo
rientro?
“Potrebbe esserci, però in un percorso di crescita di una
società e con persone che sanno come lavoro e hanno fiducia in me”.
Azzardo, dove?
“Per esempio a Riccione, nella mia città, anche se la vedo
dura. Le sembra possibile fare calcio in una società che vede la prima squadra
e il settore giovanile andare per conto proprio? È sempre stato così, sin dai
tempi in cui allenavo, e questo non è pensabile. In un contesto così che senso
ha coltivare un settore giovanile?”.
Quindi l’allenatore a
certe condizioni lo rifarebbe?
“Mi piacerebbe darmi da fare per la mia città, non
necessariamente l’allenatore. Vivere una situazione calcistica di crescita per
tutto un ambiente. Le condizioni ora non ci sono. Comunque, ho cinque nipoti e
il «lavoro» non mi manca…”.
Lei ha allenato cinque
anni il Rimini: che effetto le ha fatto vederlo fallire?
“Avvilente”.
Quando la Cocif arrivò,
lei era l’allenatore.
“Il Rimini era in grandissime difficoltà economiche, per
fortuna arrivò l’azienda longianese con grandi ambizioni e voglia di
investire”.
Cosa vuol dire
allenare una squadra quando naviga in cattive acque economiche?
“Le difficoltà mi hanno sempre esaltato e i risultati poi mi
hanno dato ragione. È grazie a quei risultati che la Cocif ha poi deciso
investire nel Rimini”.
E la Rimini città, che
rapporto aveva con la squadra?
“Allenare il Rimini è sempre stato molto difficile. La
tifoseria è esigente, non solo la domenica allo stadio, ma anche durante gli
allenamenti. Altri allenatori più bravi di me come Bagnoli e Sacchi, hanno
trovato le mie stesse difficoltà. Posso dire che è un sentire comune”.
E la Rimini
economica?
“Ha sempre avuto poca voglia di investire nel calcio.
L’arrivo di un’azienda di Longiano parla da solo”.
Andiamo alle origini
della sua carriera: perché calciatore?
“I primi calci a 12 anni. Non mi andava però di vedere i
miei amici andare la domenica dove volevano mentre io ero impegnato con la
squadra. E così decisi di smettere”.
Quando riprende?
“A 17 anni, convinto da qualcuno che aveva visto in me delle
qualità. Gioco nell’Alba in Prima categoria, dove vinciamo il campionato. Un
altro anno lo gioco sempre nell’Alba che nel frattempo si era fusa col
Riccione, poi passo alla Vis Pesaro ed entro nel mondo del professionismo”.
Come avviene il suo
passaggio alla Vis Pesaro?
“Il giovedì disputava delle amichevoli contro il Riccione.
Avevano vinto il campionato di D, e così mi presero, se non ricordo male per 2
milioni”.
Il suo primo
stipendio da professionista?
“55mila lire al mese. Saliti a 75mila l’anno dopo, quando
sono passato al Forlì, sempre in C”.
Stagione 1964/65 coi
galletti: realizza 6 reti.
“Giocai più di un ruolo. Malgrado l’altezza non eccelsa, ero
piuttosto bravo sulle palle inattive.
L’anno dopo, sempre
in C, va al Cesena.
“Voluto dall’allenatore Renato Lucchi, il quale però era
passato ad allenare il Verona. Il Cesena decise di tenermi lo stesso su suo
suggerimento. Ricordo che durante il ritiro Lucchi mi prese da parte e mi
disse: «mi raccomando non farmi fare brutta figura, qua ti ho voluto io». Direi
che l’ho ripagato visto che ho fatto quattro anni stupendi, culminati con il
passaggio in B”.
Dove esordisce nel
1968: Cesena-Catania 2-2. Se lo ricorda?
“Certo che me lo ricordo! Nel Catania giocava in certo
Regazzoni, lo marcai talmente male che fece due reti. Lì ho iniziato a pensare
che forse la B era troppo per le mie qualità”.
Si era un po’
avvilito?
“Per fortuna alcuni miei compagni, Leoni, Brunazzi, Rancati,
mi tranquillizzarono, dandomi la sicurezza necessaria per giocare a quei
livelli”.
Viene scoperto
difensore centrale.
“Iniziai terzino fluidificante. Fu Meucci a inventarmi
stopper, al posto di Masetto, che aveva avuto delle difficoltà di rendimento. È
stato da centrale poi che la mia carriera ha conosciuto alti livelli”.
La migliore gara che
ricorda col Cesena?
“Coppa Italia contro la Juventus, marcavo Anastasi, nel suo
periodo d’oro. Nei primi quindici minuti praticamente non presi palla. Studiato
il giocatore, feci poi una grande partita. La sera andammo a cena tutti insieme
e ricordo che l’arbitro della gara, il signor Monti, disse a Manuzzi: «quel
numero 5 cosa ci sta a fare in serie B?». Parlavano bene di me”.
L’anno dopo viene
premiato: gioca in A col Bari.
“Il Cesena aveva avuto diverse richieste solo che il
cartellino in quegli anni era di proprietà della società. Manuzzi, quando
eravamo in C, mi disse che se fossimo andati in B, mi avrebbe ceduto. Una volta
in B, poi mi disse che era necessario salvarsi e quindi non potevo essere
venduto”.
Lei voleva andarsene?
“A Cesena stavo benissimo, però volevo la A. Probabilmente
alla richiesta del Bari il presidente non ha potuto dire di no”.
Esordio nella massima
serie contro la Roma.
“Scendo in campo e mi trovo davanti 40mila spettatori, quando
ero abituato a qualche migliaio. Vinciamo di misura, gol di Canè”.
La stagione si chiude
con l’ultimo posto.
“Annata particolare. Chiudiamo l’andata quarti, merito di
Oronzo Pugliese che con piglio deciso non si era lasciato condizionare da
nessuno. Solo che alla tifoseria certe scelte non erano andate giù, e così
Pugliese fu esonerato e la squadra andò allo sbando. Nel ritorno facemmo solo 4
punti”.
Ancora oggi lei è tra
i primi dieci per numero di presenze nella storia del Bari.
“Già l’anno successivo alla A avevo avuto richieste da Lazio,
Sampdoria, Foggia, il presidente De Palo però non ne voleva sapere di cedermi.
E così è stato per tutti i sette anni a Bari, periodo migliore della mia
carriera di calciatore”.
Sempre a Bari 251
presenze, due reti: quale la più bella?
“Contro la Reggiana in B. Marcavo Flaviano Zandoli: colpisce
la palla di testa, carambola sul palo e sui miei testicoli. Proseguo la gara
con un gonfiore pazzesco, e col dottore che voleva farmi uscire. Decido di
rimanere in campo e addirittura segno il gol della vittoria”.
Chiude la carriera a
Brindisi in C, stagione 1976/77.
“Giocai 48 gare, Coppa compresa, e segnai ben 5 reti.
Arrivammo a metà classifica. La società purtroppo non navigava in buone acque e
così il presidente mi regalò il cartellino e andai a Riccione”.
Inizia un’altra
carriera, quella di allenatore.
“Quando a 38 anni ho smesso di giocare non pensavo di
intraprendere questa carriera. Solo che il campo mi mancava e così ho iniziato
ad allenare la Berretti del Riccione”.
Quando la prima
squadra?
“Quando decisero di esonerare Pederiva: ero recalcitrante,
soprattutto perché non volevo fare un torto a Firmino. Mi convinsero e lì ho
capito che sarebbe stato il mio futuro. Ponevo una sola condizione”.
Quale?
“Rimanere vicino a casa. È stata l’unica regola che mi sono
dato”.
Arrivano Riccione,
Urbania, Urbino, Fano.
“Quest’ultima è quasi comica. Il segretario era Gabriele
Valentini: avevo firmato il contratto, mettiamo giù le prime idee per la
squadra. Il giorno dopo vengo a sapere che il presidente ha venduto la società
e quindi salta tutto”.
E così rimane senza
squadra.
“A metà stagione vado a Jesi in C2, poi Santarcangelo e
Riccione”.
A Riccione, profeta
in patria?
“Dovevamo salvarci, dopo dieci giornate ci ritroviamo primi.
Ricordo che giocammo a Rimini una gran partita (1-1 il finale, nda), gara che
probabilmente ha determinato il mio passaggio ai biancorossi l’anno dopo”.
Perché va male a
Riccione?
“Verso la ventesima di campionato eravamo a metà classifica.
In società c’era qualche presuntuoso che criticava il mio lavoro e così sono
stato esonerato”.
L’anno dopo al Rimini
in C2.
“Faccio cinque stagioni, conquistando un terzo posto con
tredici giocatori a disposizione. Ricordo che qualcuno mormorava: «va a finire
che sarà un riccionese a portarci in serie C1»”.
Al Rimini chiude con
un esonero.
“Gara in casa col San Donà, chiusa in pareggio dopo averla
dominata in lungo e in largo. Eravamo quarti, l’obiettivo erano i play off. La
domenica dopo tutti i campionati si erano fermati per l’omicidio di Spagnolo,
il tifoso genoano. In quella settimana di stop decisero di esonerami, tra
l’altro nel modo più incredibile”.
Ovvero?
“Me lo dissero il venerdì, già cambiato e pronto per
condurre l’allenamento, a due giorni dalla gara”.
Tanto amaro, quindi.
“Si è ripetuta la stessa situazione di Riccione:
incomprensione con la dirigenza. Quando guido una squadra sono io a prendere le
decisioni, non gli altri per me. Il mio carattere è questo e l’ho pagato. Ma non
ne sono pentito”.
Guida ancora Imola,
Forlì, Castel San Pietro sempre subentrando ad allenatori. Come mai?
“Faticavo a trovare una squadra visto il mio carattere e
l’assenza di un procuratore, che non volevo. Però mi era stato dato un marchio:
per gestire le situazioni difficili chiamavano il sottoscritto”.
Piccoli bilanci. L’attaccante
più forte che ha marcato?
“Chierici del Verona. Giocatore completo e mobilissimo in
anni in cui gli attaccanti non si muovevano tanto”.
Il giocatore più
forte che ha allenato?
“Cristiano Doni. Lo scoprimmo il sottoscritto, Ceccherini ed
Ermeneti in un torneo giovanile a Cesenatico. Giocava nella Berretti del
Modena: dopo mezzora di gara tutti e tre ci guardiamo in faccia e diciamo la
stessa cosa sul quel numero 8. Decidiamo così di prenderlo in prestito con
diritto di riscatto, sapendo che a Modena non era neanche titolare. I risultati
ci hanno poi dato ragione vista la carriera che ha fatto e il terzo posto
conquistato a Rimini”.
Il migliore giocatore
romagnolo?
“Eraldo Pecci”.
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