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Ala Destra

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Un tempo prendeva il volo lungo la fascia con dribbling funambolici, piroette e cross dal fondo, oggi è semplicemente scomparsa. Non c’è più. Estinta da un tris di numeri da non confondere col gioco del Lotto: 4-4-2. Fernando Acitelli ne ha sancito un primo isolamento nel libro “La solitudine dell’ala destra”, il sacchismo ne ha segnato il tramonto definitivo col suo modulo prediletto. L’Italia ha avuto ali che hanno fatto scuola: i due baffi di Torino (Claudio Sala e Causio), il “brasiliano” Bruno Conti, più di recente Donadoni (giocatore dai “ghiribizzi geniali” secondo Brera). Il numero era il 7, e una loro finta valeva il costo del biglietto. Nel mondo, il doppio passo di Garrincha è stato leggenda, così come genio e sregolatezza di George Best. Oggi pullulano ruvidi interni di centrocampo e le poche ali rimaste si impomatano i capelli e fanno i fighetti da pubblicità (Beckham e Cristiano Ronaldo). E pensare che la prima rabona in fascia porta la firma di un numero 7 poco conosciut

Doping

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Il doping nel calcio? Mai e poi mai. È il refrain che ha assillato per anni gli amanti della pelota, finché un dì un boemo dal cognome Zeman, non denunciò che nel calcio c’erano troppe farmacie. Apriti cielo e fascicoli di procure, con quel Guariniello da Torino deciso a vederci chiaro. Si scopre così che il laboratorio antidoping dell’Acqua Acetosa di Roma effettuava sì controlli sui calciatori, ma farsa. Ciclisti torchiati in piena notte sin sotto le coperte di casa, calciatori con le urine scambiate come un barbatrucco di Silvan. Ma la fantascienza degna della miglior collezione di Urania arrivava dalle giustificazioni dei pallonari colti con le analisi alterate. Il riccioluto Fernando Couto incolpò della sua positività uno shampoo galeotto, giustificazione comprensibile vista la folta chioma. Marco Borriello diede la colpa a una pomata contro un’infezione vaginale della compagna Belen (beato lui). Mutu sniffò polvere bianca perché preso dall’ansia della prestazione con una porn

L'insolito giudice di Simenon

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È un Maigret insolito quello del romanzo “ La casa del giudice ” (Adelphi, pp. 145, euro 7,00). Soprattutto perché confinato nella lontana periferia della Vandea, non si sa per quale misfatto. Parigi è lontana, così come la sua vivacità, eppure l’ispettore dimostra di sapersi adattare al lento e noioso quotidiano di un paesello, fatto di partite a carte al bar, il tempo bizzoso, boccali di birra e un insopportabile compagno d’arme innamorato della propria brillantina. A riportalo alla vita, per paradosso, ci pensa un insolito omicidio in casa di un giudice, a L’Aiguillon. Altro paesello, che vive di cozze, dove tutti si conoscono, stranamente abitato da un giudice dal passato a Versailles e con due figli dalle tante problematiche nel passato e nel presente. Una strana simbiosi si crea tra l’ex uomo di legge (il giudice) e il tutore dell’ordine (Maigret): sono due personaggi le cui leggi non stanno solo nei codici ma nel loro essere. Sono di un altro mondo rispetto a quel micro universo

Artusi e quell'odore di chiuso

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Come cambiano i tempi. Siamo alla fine dell’Ottocento, c’è un personaggio che si è fatto una posizione economica che gli consente di non lavorare più e di dedicarsi all’hobby preferito: la cucina. Per i più è ancora un signor nessuno, romagnolo d’origine, vuole pubblicare un libro-raccolta di ricette, anche se non trova un editore, ed è costretto a cavarsi di tasca propria i soldi per stamparlo. Oggi, a cent’anni dalla sua morte, il personaggio è venerato da tutti, mette insieme mondo accademico e gusti popolari, ed è elevato al rango di padre della cucina italiana. Strana parabola, quella dell’Artusi. Fisico imponente, baffi a manubrio, scapolo sino all’età di 90 anni. Gastronomo per passione, insieme alla sua fedelissima Marietta, la governante che l’ha accompagnato lungo il corso della sua vita. Cultore delle lettere, con due pubblicazioni poco considerate dalla critica. E soprattutto, investigatore. Proprio così. Era il tassello che mancava nel variegato puzzle delle definizioni a

Il delitto etico di Harvey Garrard

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Guardando all’attuale situazione e alla caduta dell’etica pubblica e privata, può far riflettere anche un piccolo libro come “ Il delitto di Harvey Garrard ”, scritto dal giallista inglese Oppenheim negli anni ’30. Un giovane aristocratico avvezzo alla bella vita, Garrard, si trova sulle spalle l’azienda di famiglia, che lascia in altre mani sino al giorno nel quale se la ritrova sul lastrico. Come fare per risollevarne le sorti? Prendere illegalmente dei soldi, sottratti a una persona morta, quale prestito d’onore, e fare della speculazione finanziaria. In gioco c’è un’azienda da salvare, posti di lavoro da difendere, una tradizione aziendale di decenni da onorare. Oppenheim ci dà prova di un personaggio che pur utilizzando mezzi poco leciti, nell’insieme appare come un eroe positivo. In fondo Garrard quando fa qualcosa d’illecito ne sente il peso della coscienza, sia individuale (la sua etica) sia sociale (lo scandalo del contesto). Proprio il contrario di oggi, dove etica pubblica

Abatino

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Da giovani ingenui pensavamo che si trattasse di un (piccino) allievo di Sant’Antonio Abate, eremita in qualche sperduto posto della terra. E invece, altro che luogo sperduto, l’abatino se ne stava nei moderni templi del Novecento, a calciar palloni, disegnando parabole ad effetto e tocchi di genio. Amato dalle folle, ma inviso al patriarca del giornalismo sportivo, Gianni Brera, che ne rimarcava l’inadeguatezza della razza italiota al gioco da esteti. Siamo inferiori di fisico?, e allora adeguiamoci al difensivismo opportunista, sosteneva Giuan. Catenacci e contropiedi a go-go, per classe e tecnica meglio rivolgersi altrove. E chi era stato folgorato da una madre natura che gli aveva offerto un paio di piedi buoni e il velluto nelle idee, beh, erano cavoli suoi, aveva semplicemente sbagliato paese. L’altro Gianni d’Italia, Rivera, ne ha saputo qualcosa, sempre ferocemente criticato dal Giuan padano. Troppo lezioso, troppo poco avvezzo al sudore, in una parola… abatino. Un commedia uma

Santon, adesso capiamo tante cose dall'Inter

Santon: “Non sono contento del mio debutto in bianconero” (dopo Cesena-Catania 1-1). Col Napoli si è rifatto con gli interessi: Carlino 5; Corriere 4,5; Repubblica 5. Per la cronaca, La Voce gli ha dato 6,5!

Chapeau Moratti

4 giornate a Chivu, l'Inter non fa appello. Chapeau Moratti

Una merda e molto più

Chivu: "Mi sento un uomo di merda" (dopo Inter-Bari). Forse anche qualcosa di più...

L'Unità d'Italia festeggiata allo stadio

"Il ministro della Difesa Ignazio La Russa era al S.Paolo nell'ambito delle celebrazioni per i 150 dell'Unità" (Carlino, 27.01). Alla traversa di Cambiasso gli scappato un "vigliacco"...

A chi tagliatelle e sangiovese?

“Giaccherini il Bruno Conti alla Piadina” (Enrico Currò Repubblica 24.01)

Pellegrinaggio a Sarsina

Visto Pellegrino dalle parti di Sarsina. Pare aver sbagliato la porta della chiesa.

Il Cesena non esiste

90° minuto, linea a Carlo Paris che presenta Milan-Cesena. Un minuto di collegamento neanche una parola - e dico una - sul Cesena. Domenica Sportiva. Bagni e Zazzerroni parlano del Cesena, Paola Ferrari li richiama all'ordine: "Torniamo a parlar del Milan".

L'alcool di Ceccarelli

Fermato Ceccarelli in evidente stato di ebbrezza. Dai rilievi del sangue è risultato in sovrabbondanti dosi di Eto’o

Se Bologna non segna... Cesena?

“Adesso datemi uno che segni” (Malesani su Repubblica 18.01). A Cesena l’hanno sentita come una presa per il culo.