Pecci, Eraldo

 “Grande calcio giocato di testa”, La Voce di Romagna 5 ottobre 2009 


ROMAGNA – Ha giocato con Savoldi e Bulgarelli, Pulici e Graziani, Antonioni e Bertoni, Giordano e Maradona. Basterebbe questo semplice elenco per sottolineare la carriera di Eraldo Pecci . Romagnolissimo nella parlata e nel DNA (è nato a San Giovanni in Marignano), così definito dal Dizionario del calcio italiano (Baldini & Castoldi) curato da Marco Sappino: “sul campo e nella vita, è il cervello il suo muscolo più sviluppato”. Gli leggo la frase, rimane un po’ stupito, e come al solito ci scherza su: “Si vede che quell’autore non mi ha conosciuto bene”. Sarà una delle tante battute, brillante modo di raccontare e sdrammatizzare il calcio, stile che lo ha reso celebre in tv al fianco di Bruno Pizzul.

Quando ha capito che avrebbe fatto il calciatore?
“Sin da piccolo. Già quando collezionavo figurine la mia mente volava verso i campi sportivi”.

I primi calci al pallone?
“A Cattolica con la maglia del Superga ’63. A 6 anni nel periodo dell’epifania feci un torneo: da allora per oltre trent’anni non mi son più fermato”.


Ha detto: “se non avessi fatto il calciatore avrei fatto il contrabbandiere o il disadattato”.
“Lo confermo. Non ero preparato per altre strade. Se non avessi giocato mi sarei dovuto svegliare da un grande sogno e tornare nella realtà”.

Cresce nel Bologna. Esordio il serie A contro la Juventus. Mica male…
“Ricordo benissimo quella partita. Con me esordì anche Franco Colomba. Eravamo in camera assieme. Quella notte dormimmo poco, parlammo tanto, di tutto”.

Prima partita, subito protagonista.
“Nel bene e nel male. Causai il rigore su Bettega, me lo procurai su Salvadore”.

La partita finì 1 a 1.
“Appunto”.

Sempre quell’anno primo trofeo: la Coppa Italia.
“Giocammo all’Olimpico, si andò ai rigori: tirai il quinto e ultimo, decisivo”.

Mica male per un 19enne.
“Prendermi delle responsabilità è sempre stata una mia caratteristica. Laddove ero deficitario nel fisico e nel dinamismo, sopperivo con altre doti”.

Nel 1975 va al Toro di Radice.
“Lì sono diventato grande per davvero. Fino a quel momento avevo visto dolci solo in vetrina, da Torino in poi ho iniziato ad assaggiarli e con gusto”.

A 20 anni già scudetto coi granata.
“Eravamo una grande squadra. Diciamo che se fossimo stati Juventus o Milan avremmo vinto anche di più”.

Era il Toro dei gemelli del gol.
“Graziani e Pulici erano due forze della natura: Ciccio era più completo, più dedito al sacrificio della squadra; Paolino aveva una facilità di fare gol che ho visto in pochi. Anche perché in quegli anni fare gol era davvero difficile. I difensori menavano come dei fabbri, gli arbitri fischiavano poco, le regole erano più a favore della difesa”.

Torniamo al Toro: i derby con la Juve?
“Quelli sì che erano sentiti, altroché oggi. Oltre alla rivalità cittadina c’era in ballo la classifica. Devo dire che al di là di quello che si leggeva nei giornali, si trattava di sano e corretto antagonismo sportivo. In tanti poi si giocava insieme nella Nazionale”.

Dopo Torino va a Firenze. Il campionato finisce Juve 46, Fiorentina 45.
“Lo ammetto: ho sempre avuto la Juventus tra i piedi. Quell’anno, comunque, se fossimo andati allo spareggio nessuno si sarebbe stupito. Eravamo una squadra che forse non faceva un bel calcio, redditizio sì”.

A Firenze, tra l’altro, ha giocato con un personaggio del mistero: Socrates.
“Quando arrivò aveva tanta fama ma era sui trent’anni. Non gli andò bene, ma non solo a lui in quella stagione”.

Anche stranieri di fama a volte faticano in Italia.
“Sono tante e varie le ragioni. Ricordo che un mio amico mi aveva parlato benissimo del brasiliano Andrade, così così di un certo Falcao. Sappiamo poi come sono andate le cose…”.

Nel 1985 va a Napoli, un solo anno.
“Avevo un contratto di più stagioni, siccome però mi stavo separando volevo avvicinarmi a casa per stare vicino ai miei figli in quegli anni piccoli. Tornai quindi a Bologna”.

Un solo anno, ma con Maradona.
“Come Maradona non ne ho più visti. Mi piacciono tanti giocatori ma penso non ci siano più quelli che possono abitare nell' attico. C'è gente che può arrivare al quinto piano, ma nell'attico no. Insieme al Pibe in quell’attico ci metto Pelé, Di Stefano e Cruyff”.

Ha il rammarico per le sole 6 presenze in nazionale?
“Le convocazioni sono state più di cinquanta. Il mio giocar poco è dipeso da un cambio di modulo. Quando la Juve cedette Capello, iniziò a giocare con due cursori, Tardelli e Benetti, senza regista. Così fece anche la nazionale che si basava sul blocco juventino. Modulo che poi ha riproposto anche con due interisti, Oriali e Marini. Ammetto, però, che se fossi stato più bravo avrei sicuramente giocato”.

A questo punto lo considero un dato di fatto: tra i suoi piedi c’è sempre stata la Juve.
“Andiamo oltre non vorrei che mi scappasse qualcosa di grosso”.

Come mai ha deciso di non fare l’allenatore?
“Non è nelle mie corde. Ho fatto una volta, quasi «costretto», il Direttore sportivo a Bologna nell’epoca Gazzoni, dopo il fallimento. Come allenatore scelsi Zaccheroni, quando l’esonerarono me ne andai anch’io”.

L’allenatore a cui è più debitore?
“Quello che ha inciso più di tutti è stato Gigi Radice”.

Il calciatore a cui è rimasto più legato?
“La lista è lunghissima. Se devo sceglierne uno dico Ciccio Graziani, ho condiviso tanto con lui”.

A proposito lei guiderebbe una squadra da reality come ha fatto lui?
“Ci vuole una certa apertura mentale per farlo, Ciccio ha dimostrato di averne. Io comunque non l’avrei fatto”.

Il mister no, il commentatore televisivo sì.
“Mi sono divertito tantissimo e probabilmente ho fatto anche divertire. Ho sempre cercato di sdrammatizzare. Alcuni oggi mi fermano e mi chiedono di ritornare in video”.

Lei cosa risponde?
“Dico che ne ho già dette troppe di cazzate, possono bastare”.

È vero che ha paura di volare?
“Ho paura di cadere. Mi è venuta quando stavo per raggiungere il ritiro del Napoli, dopo un volo complicato. Per dieci anni ho fatto di tutto per evitare di salir su un aereo. Ora la fiducia sta lentamente tornando”.

Secondo lei chi è stato il più grande calciatore romagnolo?
“Sarà per il fascino delle figurine ma i vecchi per me erano più forti. Per non fare un torto a nessuno mi limito a dire che un Maradona in Romagna, al di sopra di tutti, non c’è stato”.

Lei non ha mai giocato in una squadra romagnola.
“E’ stato un caso. Mi sento comunque un romagnolo a tutti gli effetti, con tutti i pregi e difetti”.

Il peggior difetto di un romagnolo?
“Ci arrabbiamo per un nulla. Il buffo è che subito ci passa, poi andiamo a mangiare tutti insieme come se nulla fosse”.

Favorevole alla regione Romagna?
“Già abbiamo troppi enti tra provincie, comunità montane e quant’altro che sarebbe il caso di ridurre anziché aggiungere. Sono d’accordo però sulla salvaguardia della cultura e delle tradizioni romagnole”.

Sa parlare il dialetto?
“Qualche parola. Comunque lo capisco”.

Me ne dica solo una.
“Vado sul classico, pataca”.

La sua cadenza romagnola nel parlare le ha dato dei problemi?
“Fuori dalla Romagna mi hanno sempre preso in giro per questo. Il bello è che quando venivo in Romagna succedeva il contrario”.

In conclusione?
Ride: “Mi hanno sempre preso in giro su tutto!”.

 

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