Scala, Augusto

L'anarchico del pallone”, La Voce di Romagna 19 luglio 2010 


Augusto Scala
sta al calcio italiano come Jean Marc Bosmann sta a quello europeo. Non sembri azzardato questo paragone. Prima di Scala il calciatore era una specie di pacco postale che le società potevano spedire a qualsiasi destinazione, senza il minimo consenso del giocatore. Finché un giorno il poco più che ventenne di San Piero in Bagno non esclamò un celebre “no” al suo Bologna: gli avevano promesso che sarebbe rimasto sotto le due Torri e invece lo avevano venduto sottobanco all'Avellino. Era il 1973, Scala viene messo fuori rosa, il mondo del pallone si mobilita in suo aiuto, arriva il primo sciopero dei calciatori. Risultato: l'Aic (Associazione calciatori) ottiene la firma contestuale (società-calciatori) per la cessione. Tutto questo grazie all'anarchico del pallone per antonomasia. Barba e capelli sempre lunghi, modello George Best, insofferente a ritiri e regole. Dalla sua aveva piedi vellutati da mezzapunta di razza e la propensione al gol, al punto che Juventus e Nazionale si erano invaghite per lui. Lo incontro nella sua casa a San Piero: pareti tappezzate di fotografie di carriera, una sigaretta dietro l’altra, di barba e capelli lunghi non c'è più traccia.

Facebook le dedica un Augusto Scala fan club: che effetto le fa?
“Fa piacere, visto che ho smesso di giocare da trent’anni. Vuol dire che qualcuno si ricorda ancora di me. Anche se sinceramente è mia figlia Veronica che segue queste cose, io non sono molto pratico di internet”.

Quindi se le dico Wikipedia…
“Uhm…”

La più famosa enciclopedia virtuale. Di lei scrive: “genio e sregolatezza”, “mal digeriva la vita dell’atleta”. Conferma?
“Certo che confermo. Ho sempre vissuto il calcio come divertimento, prima che un lavoro. Quindi gli allenamenti duri, i ritiri, mi pesavano tantissimo. Tenga conto che la disciplina in quegli anni era piuttosto ferrea, l’allenatore era un’autorità da rispettare in tutto”.

Sottostava alle regole?
“Non potevo fare diversamente, alla fine però non ho più retto. Tant’è vero che ho smesso abbastanza presto, poco più che trentenne”.

Il ritiro più duro?
“A Bergamo quando dovevamo salvarci: dal lunedì alla domenica. Ci avevano portato sul lago di Garda, non si poteva neanche scappare”.

Primi calci nella Sampierana.
“Primi anni Sessanta, una scelta inevitabile. Cosa faceva un giovane a San Piero in quegli anni se non calciare il pallone per strada?”.

Una squadra organizzata quando arriva?
“In un torneo provinciale che poi vinciamo. In squadra c’era anche Paolo Ammoniaci, anch’egli di San Piero. Decidiamo così di iscriverci al campionato di categoria, vinciamo anche quello. E così via, finché non ci notano alcuni osservatori”.

E arrivano i provini.
“Il primo fu a Cesena: andammo io e Ammoniaci. Presero lui, scartando il sottoscritto. Ne feci un altro al Bologna, mi presero”.

Era il 1966.
“Era la prima volta che mi allontanavo da casa. Oggi c’è la E45 e malgrado i suoi tanti problemi posso considerarla uno spasso rispetto ad allora. Un tempo per arrivare a Bologna c’era un percorso da non credere. Circa 150 chilometri di distanza, che a noi parevano due mondi diversi”.

L’impatto col capoluogo?
“Ero ospitato nel centro sportivo del Bologna. All’inizio la nostalgia era tanta. Col tempo, il piacere del gioco, le amicizie… mi sono ambientato in fretta”.

Con qualcuno in particolare?
“Battisodo, col quale poi sono andato al Cesena. Zaccheroni, Roversi e anche quel pazzo di Pace, col quale c’era buona intesa”.

Stagione 1968/69: esordio in serie A.
“Contro il Milan, vittoria per uno a zero. Edmondo Fabbri mi fece giocare pochi minuti. Avevo comunque già esordito in coppa delle Fiere e coppa Italia”.

In quegli anni si parla di Scala come erede di Bulgarelli.
“Quel paragone purtroppo mi ha danneggiato. Mi ha responsabilizzato in maniera eccessiva per l’età che avevo, poi giocavamo in due ruoli diversi: io ero una mezza punta, lui un mediano”.

Nella stagione successiva arriva il primo gol in A.
“Contro la Juventus a Torino, su punizione. Gol del pareggio finale, 1 a 1”.

Proprio la Juve la cerca.
“L'allenatore era Picchi, puntavano sui giovani, dovevo andare al posto di Capello. Purtroppo mi infortunai all’inguine e così saltai l’anno. Quell’infortunio ha condizionato la mia carriera”.

Carriera che nel periodo migliore ha conosciuto le convocazioni in Nazionale.
“Un po’ me l’aspettavo, nel Bologna stavo giocando bene. Prima mi chiamò Vicini nell'Under 21, poi Valcareggi nell’Under 23. Addirittura fui inserito tra i quaranta del mondiale in Messico”.

Nel 1972 va al Cesena in B. Se l’aspettava?
“No. Appresi la notizia mentre ero in ferie a Parma. All’inizio non fu facile, saputo però che ero in prestito per un anno, accettai”.

Annata strepitosa.
“Secondo posto e prima volta del Cesena in serie A. Addirittura segno il gol della promozione contro il Mantova”.

Ritorna Bologna, per poi essere girato all’Avellino: arriva così il gran rifiuto.
“A scanso di equivoci non rifiutai l’Avellino come squadra – che tra l’altro mi dava uno stipendio sette volte superiore di quanto guadagnavo prima - bensì dissi di no perché il Bologna calcio era venuto meno alla parola data”.

Si spieghi meglio.
“Tornato dall'esperienza a Cesena mi avevano detto che ero incedibile, quando in realtà mi avevano già venduto da una settimana”.

I patti, quindi, vengono meno.
“Ne faccio una questione di principio e di dignità: quanto si dice deve avere un valore”.

Inizia una durissima lotta con Avellino e Bologna.
“L’Avellino minacciava di acquistare l’intero cartellino e di non farmi più giocare. Nel frattempo avevo incontrato Sibilia (presidente dell'Avellino, nda) e gli avevo spiegato che il mio rifiuto non era contro la sua squadra, bensì per un sacrosanto principio di lealtà”.

Aveva pensato di smettere?
“Certo e l’ho anche detto al Bologna. Il calcio per me era un gioco, a San Piero i miei genitori avevano un’edicola e un negozio di frutta, problemi economici quindi non ne avevo”.

Rimane a Bologna ma messo in disparte. Addirittura gioca con la Primavera.
“Ero sotto contratto, dovevo stare alle regole: due allenamenti la settimana, poi scendevo in campo coi giovani. La società comunque mi pagava regolarmente”.

Nella sua battaglia interviene l’Associazione calciatori (Aic) guidata da Campana. Per lei arriva il primo sciopero del calcio: 14 aprile 1974 le partite iniziano 15 minuti in ritardo.
“L’apporto dell’Aic è stato fondamentale. Avevano capito che in gioco non c’era solo Scala ma l’intero mondo del calcio”.

Alla fine di tutto, 1974/75 va all’Atalanta.
“Prima di cedermi avevano avuto il buon senso di chiedermi se il trasferimento mi sarebbe andato bene. Insomma, la mia battaglia non era stata vana”.

A Bergamo gioca sette stagioni.
“Sette anni da dio, partendo subito bene: 8 reti in serie B. Il mister era Heriberto Herrera, rapporto difficile tra noi”.

Perché?
“Preparatore atletico eccezionale, schiavo però dei suoi rigidi schemi mentali e di lavoro. Per uno come me che faticava a stare alle regole figuriamoci che situazione. Per fortuna che è durato poco all’Atalanta”.

La chiamano il “George Best di Bergamo”.
“L’appellativo è arrivato dopo, quando ho smesso. Tant’è vero che l’ho appreso da mia figlia su internet. Probabilmente per i capelli lunghi. Il mio soprannome era un altro”.

Quale?
“Gusto gol”.

La migliore annata all’Atalanta?
“La promozione in A con Titta Rota (1976/77, nda).

Ultima gara con l’Atalanta a Cesena: i bianconeri vanno in A, voi in C1. Che effetto le ha fatto?
“Nessuno, sapevamo già che eravamo retrocessi. Avevo poi già deciso di smettere, mentalmente mi ero già allontanato dal calcio”.

Accetta però una brevissima parentesi a Fano in C.
“Mi ero illuso di continuare, invece feci due mesi poi mollai tutto. Del calcio non ne volevo più sapere”.

Perché non allenatore?
“Il pallone mi aveva talmente nauseato che era impossibile continuare in qualsiasi modo e a qualsiasi livello. Quando nel calcio prevale il lavoro sul gioco meglio dire basta”.

Piccoli bilanci. Il suo primo stipendio da calciatore?
“A Bologna, 10mila lire al mese. In aggiunta c’erano mille lire per il pareggio, due mila lire per la vittoria”.

L’allenatore a cui è più debitore?
“Edmondo Fabbri: mi ha lanciato nel grande calcio”.

Il marcatore più ostico?
“Furino ai tempi del Palermo. Sempre attaccato dietro, entrava deciso, non ti lasciava un metro”.

Barba e capelli sempre lunghi: qualcuno l’ha mai obbligata a tagliarli?
“Oronzo Pugliese a Bologna. Io non ne volevo sapere e infatti non giocavo”.

Come sarebbe Scala oggi nel calcio?
“Un fantasista che farebbe fatica a trovare spazio nel gioco odierno”.

Si sente romagnolo?
“Lo sono e sono fiero d'esserlo”.

Parla il dialetto?
“Il nostro, più vicino alla Toscana. Destino di chi abita da queste parti”.

Il migliore giocatore romagnolo?
“Eraldo Pecci”.

 

Commenti

Unknown ha detto…
Gusto... il nostro Supereroe!

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