Conti, Paolo
"Il gentleman che sbarra la porta”, La Voce 8 marzo 2010
Paolo Conti a tutt’oggi è il portiere della Romagna col maggior numero di presenze in maglia azzurra. Più di Kamikaze Ghezzi, più del recordman Sebastiano Rossi. Rispetto a entrambi, nelle squadre di club, ha vinto molto meno, “colpa” di una Roma dalle annate piuttosto magre e dalle rose da metà classifica. Bearzot l’aveva designato a erede di Zoff nella Nazionale, dopo l’opaca prova del friulano nel mundial argentino. Un infortunio al ginocchio ha spezzato il sogno di Conti, così come l’idillio in terra romana, costretto ad emigrare per altri lidi. Il ricordo che avevo del riccionese era quello delle figurine Panini: fisico asciutto, baffi in bella evidenza. Così era un tempo, così è rimasto oggi. Lo incontro nel suo ufficio a Riccione, sua terra natale. Si occupa di management nell’ambiente calcio. Tracce di pallone però non ne vedo: di coppe, gagliardetti e fotografie nessun segno. Parlata elegante, senza nessuna inflessione romagnola (“ho vissuto vent’anni fuori Riccione”, si giustifica), modo calmo di argomentare.
Perché calciatore?
“Ho iniziato a giocare senza avere ben chiaro quale sarebbe stato il mio ruolo
e il mio futuro. L’ho fatto, quindi, in maniera ludica. Volevo fare attività
fisica prima di tutto, il calcio era il modo più semplice ed economico in quei
tempi”.
E come mai portiere?
“Quando ho iniziato a giocare ero un po’ attaccante, un po’ portiere. In
entrambi i ruoli avevo buoni risultati. Esclusivamente portiere lo sono
diventato successivamente grazie a un allenatore che mi volle provare in quel
ruolo”.
A che età?
“17 anni”.
Lei, quindi, fino a 16 anni è stato punta e portiere?
“Sì, perché giocavo prevalentemente con gli amici. Non ho mai fatto la classica
trafila del settore giovanile”.
Neanche il settore giovanile?
“Può sembrare strano ma è così. In quegli anni giocavo perché mi piaceva farlo,
l’idea di una carriera in questo sport non mi sfiorava nemmeno. Ho vissuto
quegli anni senza stress, senza impegni di sorta. Ero un ragazzo normale che
studiava e che riempiva il tempo libero giocando a calcio”.
Scusi, la serie D col Riccione come è arrivata?
“In maniera casuale. Ero stato chiamato per sostituire il portiere titolare,
partito per il servizio di leva. Cercavano qualcuno che tappasse il buco in
quel periodo. Così, attraverso un amico, mi hanno chiesto di fare la
preparazione con la prima squadra. Arriva la prima amichevole e l’allenatore mi
dice: «oggi giochi tu.» Dire che sono rimasto sorpreso è poco”.
Un percorso piuttosto inusuale visto con gli occhi di
oggi.
“Decisamente fantascientifico”.
Nel 1970 addirittura serie B col Modena.
“Avevo diverse proposte. Italo Vittoretti, grande dirigente del Riccione, mi
consigliò di accettare quella del Modena. Consiglio giusto, è stato il lancio
della mia carriera”.
Dopo due anni a Modena, ancora B ad Arezzo.
“Si è trattato di un incidente di percorso. In realtà ero destinato alla Lazio,
l’accordo tra le due società però non fu trovato. La Lazio decise così di
acquistare Felice Pulici, io mi sono accasato ad Arezzo, ritardando di un anno
la serie A”.
Che arriva con la Roma
“Mi seguiva dall’anno prima. Sfumato l’accordo con la Lazio, è stato più
semplice il mio passaggio nell’altra sponda della capitale”.
Cosa ha pensato quando le hanno detto che avrebbe giocato
in A?
“Per la prima volta ho pensato che il calcio sarebbe stata la mia professione.
Fino a quel momento era stato solo un gioco”.
Primo anno a Roma, staffetta con Ginulfi.
“Dovuta ad alcuni miei infortuni. Scopigno la sua scelta l’aveva fatta
chiaramente”.
A Roma incontra un altro romagnolo, Sergio Santarini.
“Non so quanto abbia influito la comune appartenenza alla Romagna, fatto sta
che l’intesa è stata immediata. Anche fuori dal campo”.
Santarini lo conosceva già, prima di Roma?
“No, solo di nome. Aveva giocato nell’Inter, quindi aveva già fatto parlare di
sé malgrado la sua giovane età”.
Linea difensiva tutta romagnola.
“L’intesa era perfetta. Entrambi giocavamo un calcio molto moderno: lui quasi
in linea, io piuttosto avanzato rispetto alla linea difensiva”.
In quegli anni i tifosi della Roma erano già così
pressanti?
“Più che pressanti direi passionali”.
Nel 1979/80 l’unico trofeo: la Coppa Italia.
“E’ il sigillo che rimane negli annali, i bei ricordi sono anche tanti altri”.
L’anno della Coppa è il suo ultimo a Roma: si parla di
attriti con Liedholm.
“Ai posteri è passata questa versione, in realtà le cose non sono andate così”.
Come andarono?
“In quegli anni non si poteva parlare perché c’era il vincolo della società sui
giocatori. In altre parole i calciatori erano di proprietà della società e così
era pressoché improbabile esternare alcune cose, soprattutto in chiave
mercato”.
Andando nella sostanza della questione?
“Avevo subìto un infortunio al ginocchio per il quale mi sono successivamente
operato. L’infortunio non doveva essere reso pubblico e ciò ha alimentato la
versione secondo cui avrei avuto un attrito con Liedholm. In realtà avevo una
infiammazione al tendine rotuleo che mi impediva di allenarmi e quindi di
giocare”.
Liedholm allenatore moderno si è sempre detto.
“Non solo allora, anche oggi lo sarebbe ancora”.
Altra strana coincidenza: a Roma il suo posto sarà preso
da Franco Tancredi, ex Rimini.
“Col quale ho sempre avuto un buon rapporto. Nello sport si può essere amici
anche se rivali”.
Lei era presente il giorno dell’omicidio di Vincenzo
Paparelli. Cosa ricorda di quella terribile partita?
“Non ci dissero nulla. Siamo venuti a conoscenza dell’omicidio a gara finita.
Abbiamo giocato senza sapere che era accaduto un fatto così grave”.
Santarini a caldo ebbe parole di fuoco contro la
tifoseria creandosi non pochi nemici. Lei prese una posizione?
“Lui era il capitano e quindi la responsabilità era maggiore. Personalmente, se
non ricordo male, non presi posizione solo perché nessuno chiese un mio
parere”.
Dopo Roma, stagione 1980/81 a Verona in serie B.
“Il passaggio che ha poi alimentato i sospetti di cui abbiamo parlato prima”.
Non le ha pesato andare in B?
“In quel momento non potevo avere di più. Verona poi era una bella società che
aveva ambizioni”.
Dopo Verona, Sampdoria dove conquista la serie A.
“A volermi furono Renzo Ulivieri e il direttore Claudio Nassi che ho poi
ritrovato alla Fiorentina”.
Dopo la A, la C1 a Bari.
“Sapevo che sarebbe stata una parentesi, poiché ero destinato alla Fiorentina.
Devo dire che le soddisfazioni non mi sono mancate visto che abbiamo vinto il
campionato. Quel Bari era una squadra di categoria decisamente superiore. Non
l’ho vissuto come un declassamento”.
Dopo quattro anni a Firenze, secondo di Galli e Landucci,
dice basta. Qual è la molla che l’ha spinta a chiudere?
“I miei figli. Quando hanno iniziato a fare le scuole superiori ho capito che
era necessaria una mia presenza più assidua. Malgrado avessi un altro anno di
contratto ho deciso di smettere. Avevo comunque 38 anni e quindi all’infinito
non potevo andare avanti”.
Nel 1976 esordio con l’Under 21 contro la Jugoslavia: 4-0
per gli avversari.
“Devo dire che non fu una chiamata improvvisa, in quanto avevo giocato alcune
partite con l’Under 23”.
Certo che quattro gol all’esordio non sono il massimo.
“Era un’amichevole, solo che loro avevano affrontato la gara col coltello fra i
denti, dimenticando lo spirito della partita. Da quel giorno ho capito la rivalità
sportiva degli slavi nei confronti degli italiani”.
Poi 7 presenze nella Nazionale maggiore.
“Dove ho subìto un solo gol. La tappa della Nazionale è stata la più
gratificante della mia carriera. Lì ho veramente toccato l’apice del calcio per
mentalità, ambiente, compagni. Più si sale di categoria più si viene in
contatto con queste realtà”.
Nei Mondiali del 1978 in Argentina fa il secondo di Zoff.
“Un’esperienza esaltante, l’Italia giocò meglio di tutti. Anche nelle ultime
due partite, con Olanda e Brasile, al di là del risultato, abbiamo espresso un
buon gioco”.
In quelle due gare Zoff prende gol da quasi 40 metri: si
parla di lei come sicuro sostituto.
“Sarebbe andata così se non avessi avuto l’infortunio di cui abbiamo parlato
prima. Bearzot mi aveva comunicato che sarei stato io il portiere titolare”.
Fantacalcio: nei Mondiali del 1982 quindi ci sarebbe
stato lei?
“Sicuramente agli Europei del ’80”.
Di questo non si è mai parlato.
“Adesso posso dirlo, allora non potevo”.
Domanda d’obbligo: quanto conta la fortuna nella carriera
di un calciatore?
“Difficile dirlo. Personalmente sono stato molto fortunato nella prima parte
della carriera, sfortunato nella seconda”.
Torniamo ai Mondiali del ’78. Si giocava nell’Argentina
dei generali, che clima c’era?
“Percepivamo poco della situazione politica. Nel ritiro vivevamo
particolarmente protetti. A Buenos Aires ci siamo stati un solo giorno e quindi
non abbiamo visto granché”.
Una sua intervista nel Guerin Sportivo del 1978. Il
giornalista a un certo punto scrive: “all’orizzonte non si vedono talenti”.
Pare riferirsi a oggi.
“Con la differenza che allora non c’erano portieri stranieri. È una questione
che si ripete, forse alimentata anche dal giornalismo sportivo. Probabilmente
fra altri vent’anni si dirà lo stesso”.
Sempre in quell’intervista lei disse: “una parata e sei
un eroe, un errore e ti trovi sul banco degli accusati. Vie di mezzo non ci
sono, purtroppo”.
“Il calcio vuole emozioni e rifugge la normalità. Quello che si vende sono le
sensazioni, o fortemente positive o fortemente negative”.
Qual era la dote in cui eccelleva come portiere?
“Le uscite. Anticipavo lo sviluppo del gioco e così riuscivo a prevenire
l’azione avversaria”.
È vero che è laureato in Isef?
“Ho preso la laurea quando giocavo nella Roma. Pensavo, giustamente, che
potesse arricchirmi professionalmente”.
Perché una volta si parava senza guanti?
“Perché non c’erano. I guanti moderni nascono nel ’78 in Argentina con
l’Adidas. Quando ho iniziato si giocava con guanti di gomma oppure a mani nude.
Le lascio immaginare la situazione”.
Com’è cambiato il ruolo del portiere dagli anni ’70 ad
oggi?
“Sostanzialmente deve parare. Su molti aspetti, però, si è perfezionato.
Prendiamo la tecnica: per effetto dei materiali coi guanti oggi un pallone viscido
si può bloccare, un tempo era difficile. Ma anche nella struttura fisica le
cose sono cambiate: ai miei tempi un portiere di un metro e ottanta era alto,
oggi è piccolo.
L’allenatore a cui è più debitore?
“Liedholm. Con lui ho imparato tanto”.
La parata più bella?
“Partita contro l’Inter a Roma. Mazzola al 90’ si avvicina e mi dice: «ma come
hai fatto a parare quel tiro?». Rimango un po’ sorpreso dalle sue parole, a me
era sembrato semplice. Il problema è che le parate difficili sono quelle che
non si riescono a fare”.
L’attaccante che temeva di più?
“Ne dico quattro: Riva, Boninsegna, Prati, Pulici”.
Passiamo alle domande romagnole. Favorevole alla Regione
Romagna?
“Sono favorevole alla creazione di una grande unica
provincia della Romagna. Meglio eliminare le Regioni e creare della
macroprovincie”.
Il pregio di un romagnolo?
“E’ difficile classificare i romagnoli nello stesso modo: quelli della costa
hanno alcuni tratti, quelli dell’entroterra ne hanno altri. In comune hanno il
dono dell’amicizia, dello stare insieme, delle cose belle della vita”.
Se le dico il nome Antonio Gridelli le ricorda qualcosa?
“E’ un portiere romagnolo che giocò nel Sorrento e fece il record di
imbattibilità (1537 minuti, nda)”.
Il miglior giocatore della Romagna?
“Eraldo Pecci. Aveva cuore, tecnica e intelligenza”.
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