Con Collotti se ne va un pezzo di storiografia civile


Chi come il sottoscritto ha frequentato Storia Contemporanea all’Università di Bologna alla fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, ha avuto a che fare con due testi “sacri” ai quali non poteva sfuggire: la voluminosa Storia d’Italia di Giorgio Candeloro (Feltrinelli), la Storia della Germania nazista (Einaudi) di Enzo Collotti. Una collana e un libro, dunque. Quei due testi hanno formato generazioni di giovani storici che hanno appreso da un’angolazione senza dubbio di sinistra (gramsciana la prima, moderatamente marxista la seconda) l’evolversi di fatti e personaggi che hanno lasciato il segno nel Novecento.

Scrivo questo perché sono rimasto colpito dalla scomparsa nei giorni scorsi di Collotti, i cui libri hanno accompagnato il mio percorso universitario. Di lui ricordo la feroce polemica contro Renzo De Felice, praticamente condivisa da tutto il dipartimento bolognese, soprattutto per quanto riguardava la questione del consenso fascista. Secondo De Felice il fascismo aveva avuto momenti di ampio appoggio di massa, Collotti&C contestavano che era dovuto ad autorappresentazione del regime, nonché ai mezzi di cui disponeva lo stesso. Collotti inoltre si era sempre opposto alla visione di un nazismo totalitario e un fascismo macchiettistico, per la comune matrice da cui derivavano.

Ma al di là delle polemiche del tempo, quello che mi preme in questo post è constatare un fatto: con Collotti scompare un ennesimo tassello generazionale di storico motivato da una profonda passione civile. La storia, per quella generazione, non era una mera analisi dei fatti del passato, bensì volgeva lo sguardo all’oggi. Era, appunto, passione civile. Che in alcuni si traduceva in attività politica diretta, in altri di tipo più pubblicistico e variamente pubblico. Per tutti, comunque, era un uscire dalle aule universitarie per incidere sull’attualità, senza per questo svilire il lavoro di storico.

È questo che ha accomunato personaggi di estrazione diversa come Pietro Scoppola, Gabriele De Rosa, Alberto Monticone, Roberto Battaglia, Guido Quazza, Angelo Del Boca, Delio Cantimori, Nicola Tranfaglia per citare alcuni nomi celebri. Era stata la guerra (la seconda) a spingerli in quella direzione consapevoli del ruolo che potevano svolgere nella crescita di una coscienza storica per una società civile consapevole.

L’impressione, guardando all’oggi, è la chiusura di quell’esperienza per un ritorno della storiografia nei confini più prettamente universitari, lontana dall’impegno pubblico. È come se l’eclissarsi delle ideologie si sia portato con sé anche quella dell’impegno. Seguo meno la pubblicistica, temo però che a parte personaggi come Galli della Loggia, Canfora, Balzani e Pombeni non veda molto altro in questa direzione. Spero proprio di sbagliarmi.

Foto tratta dal sito del Manifesto

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