Pari, Fausto

“Tutte le coppe di Birula”, La Voce di Romagna 21 settembre 2009


Da tempo abita in Emilia, Parma per la precisione, il suo Dna però è tutto romagnolo. Malgrado una recente enciclopedia promossa da un quotidiano locale non l’abbia inserito tra gli 82 sportivi di rilevo del nostro territorio, Fausto Pari rimane uno degli uomini di punta del calcio “made in Romagna”. C’era anche lui nella Sampdoria di “papà” Mantovani – tutti lo consideravano più un padre anziché un presidente – ultima provinciale a vincere uno scudetto (1990/91), con coppe e trofei mai più visti in quel di Genova. Difficile dimenticare quegli anni, impossibile scordare quei nomi che in maglia blucerchiata hanno fatto la storia del calcio: Vialli, Mancini, Pagliuca, Vierchowod, Mannini, Cerezo…e appunto anche il bellariese purosangue (vi è nato 47 anni fa). In pochi forse avrebbero scommesso su una carriera così brillante, soprattutto dopo che l’Inter lo girò al Parma in terza serie, in quegli anni lontano dai momenti di gloria.
“In effetti ci rimasi male. Ero in Cina con la nazionale, sapevo che tornato a casa sarei andato a giocare a Rimini in B. Invece mi mandarono a Parma, una categoria ancora più in basso. Mi sembrava un passo indietro. Col senno di poi posso dire che è stata la mia fortuna. Oggi addirittura ci abito”.


Da Bellaria all’Inter a 17 anni…
“Partivo da un paesino turistico di 15mila anime, vivo soprattutto d’estate, per trovarmi d’incanto in un quartiere di 100mila persone, insieme ad altri venti ragazzi che non conoscevo. Un abisso. Per fortuna c’è quel pizzico spensieratezza giovanile che allevia tutto”.

A Milano subito scudetto.
“In realtà non giocai mai. Mi dividevo tra la Primavera e la prima squadra allenata da Bersellini. Non sono mai sceso in campo: niente di male, non ero neanche maggiorenne!”.

Ma è così difficile per un giovane emergere nell’Inter?
“Negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate in meglio, anche grazie alle normative Uefa che incentivano gli investimenti nei giovani. Diciamo che sarebbe bello se passasse la regola del 6+5, cioè almeno 6 italiani in campo: dubito però che vada a buon fine”.

Lei viene dal Bellaria: lì hanno preso il volo tanti buoni calciatori.
“Sarà per l’aria del mare. Scherzi a parte, in effetti siamo stati in tanti: Gridelli, Paganelli, Bonini, Neri per citare alcuni compagni di strada. Probabilmente perché c’era un certo modo di intendere il calcio e soprattutto i giovani, grazie al lavoro di due grandi dirigenti: Giovanardi e Zamagni”.

È ancora così?
“E’ cambiato tutto, non solo a Bellaria. Purtroppo oggi c’è meno passione e soprattutto si vede il settore giovanile più come un debito e un peso”.

Torniamo alla sua carriera. Dopo Parma arriva la Sampdoria.
“Eh, qui i ricordi fioccano e sono tutti belli. Appena arrivato avevo 21 anni, ed ero quasi il più vecchio. Eravamo consapevoli che un ciclo si sarebbe aperto”.

E le vittorie arrivano.
“Il Campionato è stata la più clamorosa. Anche se per me quella più bella è stata la prima: la Coppa Italia 1984/85. Doppia vittoria col Milan. A Marassi in 40mila che inneggiavano per noi. A ripensarci mi vengono ancora i brividi”.

E arrivò la scommessa...
“Feci una scommessa di 1000 lire contro 1 milione con il Presidente Mantovani su chi avremmo affrontato in semifinale: vinse lui perché ci capitò la Fiorentina. Ogni volta che lo incontravo, cercava di prelevarmi quelle mille lire, che non gli volevo dare”.

Poi la Coppa delle Coppe, non la Coppa Campioni.
“Se avessimo vinto anche quella sarebbe stato il coronamento di un ciclo. Non arrivò per pochi minuti dalla fine, per colpa di una punizione di Koeman. Ma va bene lo stesso”.

Il giocatore più difficile da marcare?
“Non ho dubbi, Platini”.

Più di Maradona?
“Diego aveva più qualità, Platini però aveva una dote di pochi: la scaltrezza unita all’intelligenza. Non lo dimenticherò mai”.

L’allenatore a cui è più debitore?
“Potrei dire tutti, ognuno a suo modo ha aggiunto un tassello. Il maestro di vita però è stato Boskov. Con lui ho capito cosa significa essere responsabilizzati in campo”.

C’è il rammarico della Nazionale.
“Solo due convocazioni, mai una partita”.

Per quale motivo?
“Forse ho pagato il mio essere jolly in campo. Ho finito per fare tante cose e non affinarmi in un ruolo specifico”.

Fine carriera a Modena di cui oggi è Direttore sportivo. A proposito perché Ds e non allenatore?
“Sul fatto che a fine carriera avrei fatto il dirigente non ho mai avuto dubbi. L’organizzazione è una mia caratteristica. Anche quando giocavo facevo da cuscinetto tra squadra e dirigenza”.

Più difficile allenatore o dirigente?
“Il dirigente, hai tante di quelle campane da ascoltare che si rischia di rimanere sordi”.

Il suo primo stipendio da calciatore?
“200mila lire all’Inter per il rimborso spese. A Parma salirono a 600mila, più vitto e alloggio”.

Non proprio da nababbi.
“Diciamo che i veri guadagni arrivarono dopo”.

Più facile oggi o un tempo far carriera in campo?
“Direi oggi. Una volta le rose erano molto ristrette e vigeva un forte nonnismo, nel senso che venivi considerato un potenziale concorrente”.

All’Inter ha avuto dei nonni?
“Per fortuna buoni: Oriali, Marini e Giuseppe Baresi”.

Pratica ancora sport?
“Ogni tanto calcetto. Addirittura ho iniziato a sciare dopo i 40 anni per seguire le mie figlie”.

Il calciatore romagnolo più forte di tutti i tempi?
“Non l’ho visto giocare per motivi anagrafici, direi comunque Gino Stacchini. Mi fido di chi mi ha parlato di lui”.

A Bellaria la chiamano “Birula”: cosa vuol dire?
“Sta per , qualcosa di piccolo. Quando ero molto giovane non avevo un gran fisico. Se qualcuno viene a Bellaria e chiede di Fausto Pari, gli rispondono “cerchi Birula?”.

Nella sua carriera di giocatore e dirigente tanta Emilia, poca Romagna.
“E’ un caso. Per esempio a Bellaria ci vivono ancora i miei genitori e spesso ci torno. A Rimini poi c’è un Sampdoria Club a me intitolato. La scelta di Parma è venuta di comune accordo con mia moglie”.

Favorevole alla Regione Romagna?
“Se è un modo per coltivare e preservare le radici del nostro territorio direi di sì”.

Il prodotto tipico?
“La piadina”.

A casa sua si parlava il dialetto?
“Sì, lo parlavano i miei genitori tra di loro. Io lo capisco ma non lo so parlare”.

La prima parola che le viene in mente?
“Patàca”.


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