Post

A DOMANDA NON RISPONDO

Immagine
Valerio Cleri vince la medaglia d’oro nella 25 chilometri di fondo di nuoto. Una gara massacrante, lunga oltre cinque ore in mezzo al mare. Cleri ha la rabbia addosso di un bronzo sfumato d’un soffio nella 10 chilometri. Arriva al traguardo stanco morto, gli si piazza davanti il solito cronista tv che non trova di meglio da chiedergli: “regaleresti un urlo di gioia ai telespettatori?”. Cleri garbatamente declina l’invito. Insistono con la richiesta di un sorriso per le telecamere. Il nuotatore risponde che preferisce sorridere dentro. Non sazi, la Mazzocchi-Band’s ci riprova un’altra volta. Stessa risposta. Forse avrebbe potuto rispondere con un “vaff…”; vista l’insistenza in tanti avrebbero compreso. Non l’ha fatto. “Dove sono finiti i giornalisti sportivi?” si chiedeva tempo fa Aldo Grasso. Eccoli, sono lì a bordo vasca a fare domande idiote a campioni di stile (libero e non solo).

DA ZIGONI A ZIGONI

Immagine
Genio e sregolatezza. Nome cognome: Gianfranco Zigoni. A Verona campeggiava uno striscione “DioZigo, pensaci tu”. Lui aveva risposto: “Io non credo in Dio è lui che deve credere in me”. Alcuni giorni fa Avvenire gli ha dedicato una bella intervista. Motivo: ancora oggi nel calcio c’è uno Zigoni che fa parlar di sé: suo figlio. Nel Milan più sparagnino della storia berlusconiana, Gianmarco (18 anni) è una delle speranze del calcio italiano. Il paradosso sta nella squadra dove giocherà, quei colori rossoneri a cui suo padre nel 1973 fece svanire il sogno scudetto. Era il 20 maggio il Milan di Rocco gioca a Verona: perde per 5-3, il titolo va alla Juve per un punto. “Alla fine, quel giorno ho pianto con tutti i ragazzi del Milan, perché non mi è mai piaciuto sparare sul cadavere…”, ha confessato Zigo. Una ferita ancora aperta che chiede al figlio di chiudere: “Gianmarco vinci lo scudetto, così estingui per sempre quel debito di tuo padre con il Milan”.

UN EROE BORGHESE

Immagine
Ieri sera La 7 ha mandato in onda il film di Michele Placido, “Un eroe borghese” (1995), dedicato alla figura di Giorgio Ambrosoli. Già l'aver scelto la prima serata per un film del genere è stato quasi un evento (della Rai non si hanno tracce: Rai 1 era occupata col Festival di Castrocaro!). Poi la data, trent'anni dalla morte dell'avvocato milanese (11 luglio 1979). Un pezzo di storia d'Italia. Meglio, di vergogna. Chiamato a liquidare le malefatte finanziarie di Michele Sindona, Ambrosoli non si lasciò intimidire da nessuno (governo compreso) tirando dritto per la sua strada, che coincideva con quella della giustizia. Al suo funerale nessuno del governo presenziò, solo esponenti della Banca d'Italia. Placido descrive bene la storia, ispirata dal libro di Corrado Stajano. Anche il governo, Andreotti in primis, ha avuto le sue colpe. Ecco, penso ad Andreotti che tutte le mattine va a messa e si inginocchia davanti al crocifisso e mi viene una gran voglia di ateismo

GENERAZIONE PRECARIA

Immagine
Se la televisione latita sul mondo reale – troppo pessimista e foriera di cattive notizie secondo il nostro primo ministro – a riportare un po’ luce sul mondo d’oggi ci pensa il cinema. Che da alcuni anni ha posto l’accento sul mondo del lavoro, e, più nello specifico, sul precariato. Per citarne un paio, Eugenio Cappuccio in “Volevo solo dormirle addosso” con Giorgio Pasotti, Paolo Virzì in “Tutta la vita davanti” con Sabrina Ferilli. Aggiungo “Generazione mille euro” di Massimo Venier. Qui l’argomento del lavoro viene trattato in maniera leggera, tanto è vero che la pellicola è stata catalogata tra le commedie. La problematica, però, è terribilmente attuale. Un laureato con dottorato, genietto in matematica, lavoratore precario con contratto di sei mesi nell’ufficio marketing di una grossa azienda. L’impossibilità di pianificare la vita, la strada sbarrata nell’università (avanza il nipote di un senatore). Cosa aggiungere? Nulla, se non farsi un sorrisetto per tirarsi su.

SEGRETI ITALIANI

Immagine
Davvero strana la sorte del romanzo spy italiano. Malgrado non sia mancata la materia in casa nostra – lunga la serie di attentati e presunti golpe senza colpevoli – solo negli anni ’80 il genere ha iniziato a prendere piede in Italia. Prima il monopolio era appannaggio di scrittori francesi e anglosassoni. Dico questo perché mi è capitato di leggere “L’inganno” (Tropea, 2003) di Andrea Santini. Ebbene, Santini è il primo scrittore italiano a comparire nella collana Mondadori “Segretissimo”, uno dei primi quindi a pubblicare spy story all’italiana. Il libro merita e dimostra che i nostri scrittori mistery non hanno nulla da invidiare a Le Carrè. La storia è ambientata in una Italia sconvolta dagli avvenimenti del G8 di Genova, tra neoterrorismo informatico e complotti di Stato, che investono anche le gerarchie ecclesiastiche. A indagare un poliziotto, Aldo Palmieri, dibattuto tra l’amore per il figlio e il dovere della divisa.

A FUROR DI DEBITO

Immagine
In campo è stato un campione di classe e allegria. Fuoriclasse lo è tuttora, malgrado pancetta, giacca e cravatta. Michel Platini, presidente dell’Uefa, per l’ennesima volta ha usato il tocco giusto di fronte al sistema calcio. Più che “sistema” bisognerebbe parlare di bancarotta e debiti (il tanto blasonato Manchester, modello europeo, ha 960,3 milioni di debiti). Sì, perché il calcio non solo è malato ma non riesce a trovare l’antidoto al suo male. “E’ qualcosa di anormale, che mi dà fastidio. Non capisco come si possano spendere 90 milioni per un giocatore”, ha detto Platini. Aggiungo: la cifra sale a 217 milioni con Kakà, Benzema, Albiol, Negredo. Lo stipendio di Cristiano Ronaldo è di 13 milioni netti di euro a stagione (Ibrahimovic ne becca 12, poverino, voleva anche andare via!). Sogno di leggere Real Madrid sconfitto dal Getafe, lo Sporting Gijon e il Real Valladolid (tutte e tre salve per un pelo). Poi tutti in pizzeria, tanto paga Florentino Perez.

MOGGI-ITALIA

Immagine
Nel caso Moggi-Bologna c’è un po’ di tutto del sistema Italia. La notizia data per sondare la reazione dei tifosi (e reazione è stata!), in attesa di smentita ufficiale (un certo premier insegna, sul dire e smentire); il ricorso a un personaggio quanto meno di dubbia fama morale (squalifica sportiva di cinque anni, imputato di frode sportiva a Napoli), che ha coniato un nuovo termine vocabolariesco, “sistema Moggi” e/o “moggiopoli”; il paradosso di una squadra, il Bologna, nell’era Gazzoni in prima linea sul fronte anti-Moggi, ambiguo nell’attuale gestione Menarini; la corte a un 72enne (gli auguri il 10 luglio) emblema della gerontocrazia del pallone (altro che nuove leve!). Insomma tutto l’armamentario raccontato da Tommasi di Lampedusa nel Gattopardo ha fatto bella mostra. Tutto si è poi sgonfiato come una bolla di sapone, l’amaro in bocca però rimane. Come le tasse: perché pagarle se tanto prima o poi un condono arriverà?

MORATTI DOUBLE FACE

Immagine
L’Inter stappa bottiglie di spumante per il 17° scudetto conquistato. Tra i più meritati, tra i meno memorabili. Rimarrà più per le esternazioni di Mourinho che per il gioco in campo (mediocre al massimo). Ma tanto basta per mandare in visibilio il suo presidente, al terzo (non quarto) successo di fila dopo anni di delusioni e fegati ingrossati. Chissà che preso dalla bolgia dei festeggiamenti Moratti non decida di pagare la multa di 1500 euro che il giudice di pace gli ha inflitto per cori razzisti a San Siro contro il Napoli un anno fa. Per ora si è rifiutato. Strano tipo Moratti: fa l’antirazzista quando si tratta di Balotelli, non quando la sua curva espone uno striscione sul Napoli “fogna d’Italia”; sostiene Emergency e sperpera fior di milioni in brocchi patentati; fustiga il Moggi che aveva avvicinato per ingaggiare; fa il petroliere ma dice di essere ecologista. In psicologia si chiamerebbe schizofrenia. Nel calcio profilo di un uomo vincente.

BORGHI FOLLI

Immagine
Sempre a proposito di arbitri, il Borghi ha totalizzato un guinness: ben 54 mesi di squalifica. Questo per una giornata di ordinaria follia, domenica scorsa nello spareggio contro il Corpolò. In palio il salto in Prima categoria. I riminesi si impongono 2 a 1 ai supplementari. Al termine succede il finimondo. Il dirigente che doveva “difendere” l’arbitro (in gergo, addetto all’arbitro) colpisce il guardialinee con un pugno (per fortuna che doveva fargli da scorta!): 2 anni di squalifica (un po’ pochini). Un giocatore spintona sempre il guardialinee, lo insulta e gli getta in faccia la maglietta: un anno (pochino anche qui). Altri due giocatori non sono da meno, sette mesi. Il presidente della squadra dice, “abbiamo sbagliato ma la colpa è tutta degli arbitri: erano in malafede”. La domanda ora è una: adesso questa gente cosa farà la domenica? Niente più calcio come valvola di sfogo (e di frustrazione). Povere mogli, adesso tocca a voi!

ABBASSO GLI ARBITRI

Immagine
Finale di Coppa Italia. Squadre inedite, quanto mediocri nello spettacolo offerto. Vince la Lazio ai rigori, perde un certo modo di intendere il calcio. Soprattutto in chi lo racconta. La telecronaca del duo Cerqueti-Bagni è l’emblema di quanto in basso sia caduto questo sport. Inizia la partita Campagnaro (Sampdoria) cerca di rifilare una gomitata a Foggia (Lazio): per il cronista è colpa dell’arbitro (Rosetti) che non vede il gesto e non espelle il giocatore. Campagnaro se la cava con “è un combattente”. Altri scontri a metà campo: la colpa è sempre dell’arbitro che non li sanziona nel giusto modo. Verso la fine la chicca: presunto rigore per la Lazio, Delio Rossi entra in campo (a partita in corso) di alcuni metri, i telecronisti sorridono per l’accaduto: ben gli sta all’arbitro che non ha sanzionato il presunto rigore. Di appellativi di inciviltà a Rossi, nessuna traccia. Un calcio che vive solo di cronache arbitrali è uno sport povero. I suoi cronisti ne sono lo specchio.

IL FASCINO DEL RIVOLUZIONARIO

Immagine
Merita di essere visto il film di Soderbergh dedicato al Che. Suddiviso in due pellicole (l’argentino e guerriglia), ho visto il secondo. Racconta il periodo più difficile di Guevara, quello della guerriglia in Bolivia, terminato con la sua morte. La bellezza del film sta nel non cadere nella scontata visione mitologica, classica figurina leggendaria divenuta addirittura gadget commerciale. Soderbergh dà una visione umana del personaggio, col suo carisma ma anche con le sue debolezze e la sua solitudine. Ne vien fuori un personaggio animato da forti ideali rivoluzionari e convinto assertore della guerriglia, incapace però di capire una popolazione contadina che di lotta non ne vuole sapere. L’appoggio dato dai contadini ai militari boliviani ne è l’emblema. Il fascino del Che, però, rimane intatto: poteva adagiarsi sugli allori e sui successi di Cuba, ha preferito una vita tutta dedita agli ideali. La storia ne annovera pochi di personaggi così.

RAZZISMO ALL’ITALIANA

Immagine
D’ora in poi andare allo stadio e urlare “sporco negro di merda” sarà più facile. L’importante è non farlo troppo spesso, sennò arriva la recidività. La sentenza dell’Alta Corte del Coni non dice proprio questo, la sostanza però non muta. La razzista-story è questa: pesantissimi cori contro Balotelli, un turno di squalifica al campo della Juve, e, con grande lezione di stile bianconero, ricorso della società. Risultato: le porte prima chiuse, ora vengono riaperte. Una sentenza sconvolgente. Che conferma ancora una volta il concetto di giustizia da azzeccagarbugli in Italia. Se un segnale forte lo si voleva dare, è arrivato: ma nella direzione opposta del buonsenso. Anche se era difficile aspettarsi qualcosa di buono da questo calcio che butta a mare la serie B (è nata la Premier italiana) per papparsi tutti i 900 milioni di euro dei diritti tv. D’altronde cosa vuole questo Treviso che fa un intero campionato con 16 milioni di euro, stipendio di un solo giocatore dell’Inter?

ADDIO ROTELLA

Immagine
Per fortuna il calcio non dimentica. Soprattutto chi ha indossato una maglia con onore e ora si trova discutere col proprio mister partite più celestiali. Nel match di ieri a Bologna, il Genoa non ha dimenticato Franco Rotella, ala destra della gestione Scoglio. Se n’è andato nei giorni scorsi a 42 anni, colpito da una leucemia. Non è un nome che ha lasciato chissà quale impronta nel calcio, eppure lo ricordo bene. Il Genoa giocava a Cesena, e quest’ala destra faceva scintille. Uno a fianco mi chiese chi era. Risposi: “Non mi sembra Ruotolo, non l’ho mai visto”. Scopro così che si chiamava Rotella. Il Genoa vinse una rete a zero, l’anno non me lo ricordo. Mi ricordo però la bella impressione di quel giocatore. Scomparso così prematuramente come altri gialloblù: Fabrizio Gorin, Andrea Fortunato, Gianluca Signorini. Ora sta indagando Guariniello. Chissà che non ci sia qualcosa a legarli, oltre alla maglia indossata.

FRANCO, IL MAGO

Immagine
È un personaggio che piace Franco Nero. La prima fila del San Biagio l’ha confermato: tutte (o quasi) donne cinquant’enni. Sensibili al coetaneo, compagno di numerose serate al cinema e alla tv, e al fascino di un uomo a cui non fa difetto l’amor proprio. A Cesena ha presentato il suo “Mario, il mago”. Girato in Ungheria racconta la storia vera di un paesino sconvolto nel 1990 dall’arrivo di un imprenditore italiano di scarpe che delocalizza la sua produzione. Le scarpe per un sammaurese hanno sempre un qualcosa di particolare. Qui si aggiunge dell’altro: il passaggio dal comunismo al capitalismo di una piccola comunità, che inizia a conoscere consumi, diversi modi di produrre e persone dalla cultura nuova. La follia finale della protagonista la dice lunga su quale sia stato lo sconvolgimento. È interessante notare che Nero poco si vede in Italia. Infatti ha raccontato di ricevere ovunque offerte, tranne da noi. Altro caso di fuga di talenti?

LA SPOSA TURCA

Immagine
Decisamente bello e forte nei contenuti “La sposa turca”, il film proiettato mercoledì scorso nella sala Gramsci nella rassegna sull’intercultura al femminile. Una storia ambientata in Germania (Amburgo), che ha per protagonisti due turchi: il 40enne Cahit, la 20enne Sibel. Due disadattati sociali che infatti si conoscono in un istituto di sopravvissuti al suicidio: lui vive solo in funzione di alcool e droga; lei non sopporta le rigide convenzioni turche della sua famiglia. Finiscono per sposarsi, anche se non si amano. Ma la storia e la convivenza finisce per farli incontrare per davvero: nel cuore e nello spazio (a Istambul). Orso d’Oro a Berlino nel 2004, è un film sul difficile modo di vivere in terra straniera. Non è una pellicola a sfondo sociale, bensì introspettivo. Racconta il male di vivere non esclusivo appannaggio dell’Occidente, testimonianza che tutto il mondo è paese anche nei suoi dolori.