Il calcio alla sbarra di Beha


E se Oliviero Beha avesse ragione? Se fosse vero che il fil rouge che ha accompagnato il calcio in questi decenni è stato il malcostume, il voler arrangiarsi a tutti i costi, alla faccia dello sport inteso come semplice “gioco”? Se tutto ciò fosse vero ci sarebbe da preoccuparsi. Perché il pallone non sarebbe altro che una messa in scena teatrale, con attori farlocchi e regole violate, al solo scopo di tenere occupate masse altrimenti arrabbiate. Calcio come valvola di sfogo, “formidabile arma di distrazione di massa”. Come suo solito, non usa mezzi termini Oliviero Beha nel suo “Il calcio alla sbarra” (Bur, 2011, pp. 710, euro 11,90), volume che prosegue il lavoro iniziato cinque anni fa con “L’indagine sul calcio”. Altro che De Coubertin col suo “l’importante non è vincere ma partecipare”, qua pare che tutti vogliano soltanto il successo, costi quel che costi. Un esempio? Prendiamo lo scandalo del calcio scommesse del 1980. Giocatori dai grandi nomi vengono accusati di truccare le partite, partono gli arresti, l’opinione pubblica e i tifosi hanno un moto d’indignazione. Il tessuto sociale reagisce, risponde all’appello sentendosi tradito. Oggi no, la lealtà sportiva pare un accessorio d’arredo e si finisce come a Calciopoli, dove non si capisce chi siano i buoni, chi i cattivi.
Il punto di non ritorno del pallone, spiega Beha, sta in due ragioni. La prima, nella coincidenza tra potere politico e quello sportivo: la decadenza dell’uno ha coinciso con quella dell’altro. Il pensiero corre subito a Berlusconi, il primo a utilizzare i suoi successi nel calcio in popolarità politica. D’altronde, non disse all’economista Luigi Spaventa, che lo sfidava a Roma, “Cosa vuole questo Spaventa? Prima vinca due Coppe dei Campioni, poi si confronti con me”.
La seconda ragione della decadenza, sta nel fatto che il calcio è rimasto uno dei pochi punti di riferimento della nostra società. Le ideologie politiche sono crollate, l’afflato religioso è fievole, il calcio ha riempito un vuoto. Solo che i tifosi lo hanno, e lo stanno, accettando così com’è, disposti a cancellare tutto il marcio senza colpo ferire, perdonando qualsiasi tradimento. Un po’ come ha scritto Javier Marias, secondo il quale la memoria del tifoso dura un attimo, fino alla partita successiva. Solo che se un giochino finisci per bistrattarlo un po’ troppo rischi di romperlo, come un flipper le cui continue spinte approdano al “tilt”. I vertici del pallone ci hanno mai pensato?
(La Gazzetta del Rubicone, Novembre 2011)

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