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LE ARGUZIE DI PERRY

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Interessante l’iniziativa di Repubblica che ha deciso di ripubblicare i primi gialli della collana Mondadori. Un’immersione nella buona lettura, sempre che il genere sia di gradimento. Di recente ho letto “Perry Mason e l’avversario leale” di Erle Stanley Gardner. Lo scrittore americano è l’inventore del celebre avvocato indagatore, reso famoso grazie a un telefilm di successo. La storia è semplice. Due sorelle (Margherita e Carlotta Faulkner) con un’azienda di vivaistica di fiori vengono insidiate dal loro principale concorrente (Arrigo Peavis), che non si fa scrupolo nel voler acquisire la loro catena di negozi. Peavis, sfruttando la debolezza nel gioco del marito di Carlotta e attraverso alcuni amici fidati, riesce ad avvicinarsi al pacchetto azionario di maggioranza dell’azienda Faulkner. Nel mezzo ovviamente c’è un omicidio, tanti indiziati e la risoluzione del problema grazie a Perry Mason. Una storia semplice ma non per questo una storia banale.

L’EUGENIO NAZIONALE

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Maglione verde, barba bianca accompagnata dal solito occhiale, incedere lento, estremamente ragionato. Eugenio Scalfari è un’autorità nazionale, Cesena ha risposto a dovere al Palazzo del Ridotto (a proposito, audio pessimo!). Doveva presentare il suo ultimo libro, “ L’uomo che non credeva in Dio ”, in realtà ha raccontato un po’ di tutto. Difficile non rimanere affascinati da una personalità che ha fatto la storia del giornalismo militante. Uno oggi preoccupato perché “l’opinione pubblica non esiste più”, e perché “è l’indifferenza che ammazza”. Aggiungendo, laconico: “oggi anche parte della sinistra è indifferente”. Ha ricordato i meriti del Pd di Veltroni – “ha raggiunto il 33% con un partito nato in pochissimo tempo, e che praticamente non esisteva” – lanciando una stoccata al nemico di sempre, sir Silvio, “ha l’adorazione della propria immagine”. Impossibile dargli torto.

AUGURI TRAP

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Il suo sacco da tempo porta con sé quel famoso gatto. Quello che gli ha donato sette vite come ai felini. Mister Trapattoni compie oggi 70 anni. Non li festeggia da pensionato, ma sulla panchina dell’Irlanda prossima avversaria dell’Italia. Un simbolo del calcio, accusato di strenuo difensivismo, paradossalmente tra i primi allenatori global del pianeta (10 scudetti vinti in quattro stati). Il suo Strunz ha fatto il giro del mondo, così come i fischi con le dita, e le sue celebri frasi (“Sia chiaro che questo discorso resta circonciso tra noi”). Malgrado abbia vinto tanto due i rammarici: la bruciante sconfitta ad Atene contro l’Amburgo nel 1983 (due anni dopo vinse a Bruxelles, ma quella fa storia a sé); il flop con la nazionale italiana, con l’arrivo dell’altra Corea. Per il resto una carriera internazionale da urlo: 1 coppa delle Coppe, 1 Campioni, 1 Intercontinentale, 3 Uefa. Scusate se è poco.

C’ERA UNA VOLTA ENYINNAYA

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È stato una delle tante “scoperte” dell’Inter. Lo avevo lasciato al dicembre di dieci anni fa con la maglia del Bari, dove aveva fatto il fenomeno insieme al giovane Cassano. Risultato: Bari 2 - Inter 1. Il suo nome è Ugo Enyinnaya. Nigeriano, forza della natura, una delle tante promesse del calcio finito nel nulla. Di lui avevo perso le tracce, anche se al bar quando si parla di signori nessuno “scoperti” dall’Inter il suo nome spesso ricorre. Lo ha rintracciato l’inserto Sportweek che gli ha dedicato una bella intervista (“Io che potevo essere Cassano”). Adesso gioca nell’Anziolavinio in Eccellenza. Prima ha fatto il giramondo: dopo Livorno e Foggia, è andato in Polonia dove ha giocato senza prendere lo stipendio. Racconta che lo sbaglio più grande della sua vita è stato fidarsi di procuratori disonesti: poteva avere un contratto di 3 anni in Ungheria, gli dissero che gli avrebbero trovato di meglio. In realtà l’hanno abbandonato. Il calcio purtroppo è anche questo volto oscuro.

SPECIAL ULTIMO

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Chi ama il calcio e tifa Inter non può che essere deluso della prima di Champions contro il Manchester United. Speravamo di vedere all’opera i nerazzurri, siamo stati sommersi dall’onda rossa degli inglesi. Una lezione di tattica, tecnica, in una parola di squadra. L’incredibile però sta nei commenti di oggi. Il senso generale è: “c’è ottimismo nel ritorno in Inghilterra, il risultato di 0 a 0 ci favorisce”. Ottimismo? Dove lo si trovi rimane un misero, vista la partita a senso unico a Milano. Per informazioni chiedere alla Roma due anni fa: andata 2-1 per i giallorossi, ritorno 7-1 per i Blues. Poi c’è la questione Mourinho, nemico da sempre di Alex Ferguson. All’uscita dal campo non si sono neppure salutati. Anche se lo Special One ha confessato che “il giorno prima della partita gli ho mandato una bottiglia di vino in albergo, una bottiglia da 300 sterline, e gli ho scritto: Arrivederci a Manchester”. Bel gesto, ma comunicare il prezzo è da “Special ultimo”!

IL GRANDE JABBAR

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Nel 1968 aveva rinunciato alle Olimpiadi per protesta contro il predominio bianco. Quarant’anni dopo si ritrova un nero alla guida del suo paese. Ne è passata di acqua sotto i ponti per la stella del basket, Kareem Abdul Jabbar. Quello del gancio cielo, quello a cui avevano vietato le schiacciate perché era troppo alto. Ma anche quello appassionato di storia, quello impegnato per i diritti civili. Alcuni giorni fa (17.02.2009) il Corsera gli ha dedicato una bella intervista. Archiviati i tanti record (38.387 punti in 20 stagioni), ora allena i giovani. Giovanotti alquanto viziati e bizzosi a sentir lui: “Pensano di sapere già tutto, sono insofferenti a qualsiasi osservazione. Saltano, schiacciano, e solo per questo credono di essere dei fenomeni. Poi, che la squadra perda di 20 punti, a loro non interessa”; “I giocatori guadagnano molto, e da subito, ma hanno perso la possibilità di imparare il gioco, e i suoi valori etici, in una situazione senza stress”. Jabbar sei un grande!

SENSO DI COLPA ARBITRALE

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Notevole la lezione di calcio che i brasiliani hanno dato ai campioni del mondo. Hanno fatto vedere che la tecnica ancora paga. Eccome, se paga. Tutto il mondo se n’è accorto. Tranne i nostri vertici del calcio. Che hanno sì riconosciuto lo strapotere verdeoro, ma un appunto all’arbitraggio lo hanno fatto. Impossibile che un italiano non parli di una giacchetta nera. È nel nostro dna. Quasi una malattia. Petrucci presidente del Coni ha detto: “Loro hanno meritato. Ma dobbiamo notare, a proposito di arbitri, che il gol di Grosso era regolare. Prendiamo atto ed accettiamo". È vero, la rete di Grosso era buona, ma è anche vero che la partita è stata a senso unico. O, come si diceva una volta, a porta unica. Perché stupirsi di questi vertici che stanno allo sport come il cavolo sta alla merenda. Difficile pretendere cultura sportiva se dall’alto non arrivano buoni esempi.

CONTRORDINE: LA SPAGNA NON E’ IL PARADISO

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Contrordine amici sportivi: la Spagna non è più quel paradiso calcistico che ci avevano raccontato. Altro che modello organizzativo di club e nazionale, riassunto nello slogan di mister Aragones, “liga de las estrellas”. Tutta falso: gli iberici stanno soccombendo dai debiti. La cifra è astronomica: 627 milioni di euro, più 4,9 milioni alla previdenza. Valencia, Saragozza, Santander e Bilbao sono in bancarotta tecnica, Real Sociedad, Espanol e Villareal sono al limite dell’indebitamento. Una debacle a cielo aperto, acuita da ben 233 denuncie di calciatori che non percepiscono lo stipendio pattuito. Insomma, la patria di Zapatero è di fronte a un crac di proporzioni immani, dovuta a una “eccessiva sproporzione fra guadagni e spese”, ha detto un esperto spagnolo. Chissà cosa stanno pensando a Madrid, sponda Real, il cui sogno nel cassetto rimane Kakà. Per tranquillizzare il fisco il Presidente Florentino Perez alla domanda avrebbe già risposto “Kakà chi?”.

UN CALCIO AL DOPING

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Il calcio è sempre stato allergico all’antidoping. In realtà tutti gli sport lo sono sempre stati. Il calcio, è innegabile, di più. Forse perché gli zeri degli assegni sono maggiori. Fatto sta che giocatori presi col nandrolone si sono fatti pochi mesi di squalifica. In questi giorni, però, siamo all’assurdo. Due giocatori (Possanzini e Mannini) si presentano in ritardo agli esami, si beccano un anno senza calcio. Il ritardo è dovuto alla sfuriata negli spogliatoi di Cosmi e Corioni per la sconfitta con il Chievo. Ma tutto questo ha una logica? Si va dalla follia di un ciclista belga, Van Linden, che si ritrova a casa un controllo a sorpresa, a poche ore dalla morte del figlio di pochi mesi; a due giocatori in ritardo di una ventina di minuti squalificati d’un anno. Mi chiedo: ma se in ritardo ci fossero finiti un Totti, un Cristiano Ronaldo o un Ibrahimovic, le cose sarebbero andate così? Non penso, quelli oltre che calciatori sono aziende.

BATTISTI VAL PIU’ DI UN DRIBBLING

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Siamo alle solite. Laddove la politica è impotente, fa ricorso allo sport. Nella speranza che una partita, una stoccata o una nuotata possano cambiare qualcosa. Pazienza poi se dietro quella partita, quella stoccata o quella nuotata ci siano mesi di sudore e preparazione nel silenzio. Pazienza, la politica glamour di oggi vive di parole, di slogan, e tutto ai politicanti è permesso. Prima avevano chiesto il boicottaggio dei giochi in Cina, adesso dell’amichevole Italia-Brasile. In Cina la colpa erano i diritti umani, col Brasile il caso Cesare Battisti. Incapaci di riportarlo in Italia i politicanti sperano nel gesto degli sportivi. Perché lo sportivo è quello che allieta le loro domeniche in tribuna vip, ovviamente senza pagare il biglietto. Ma lo sportivo all’occorrenza può anche essere la panacea alla loro (cronica) incapacità. Battisti in Italia val bene una serata senza i dribbling di Kaka e Ronaldinho. A proposito: a quando un appello a Mogol?

IL DIVO HA FATTO NOVANTA

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Ha compiuto oggi la bellezza di 90 anni. E’ Giulio Andreotti. Il giornalista, Massimo Franco, gli ha dedicato un libro che ho finito di leggere da poco: “ Andreotti. La vita di un uomo politico, la storia di un’epoca ” (Mondadori, 2008). Come racconta Franco, Andreotti è un sopravvissuto: a due guerre mondiali, sette papi, monarchia, fascismo, Prima e Seconda Repubblica. E’ stato un tutt’uno col potere: sette volte presidente del consiglio, ha ricoperto svariati ministeri (Esteri, Difesa, Finanze, Tesoro…). Il libro svela il suo lato umano. Finito di leggerlo, però, non mi ha fugato il dubbio di fondo. Il suo doppio volto: accusato di pesantissime colpe (la sentenza della Cassazione non lo scagiona del tutto dal reato di mafia) e amico di strani figuri (Lima, Sindona), è stato il delfino di De Gasperi, ha conosciuto papi, leader mondiali e ha guidato l’Italia per quasi cinquat’anni. Ha ragione Beppe Grillo: di lui si saprà qualcosa solo quando sarà aperta la sua scatola nera.

L’ANZIANO E IL SUO CANE

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La “Valigia dei sogni” su La 7 sabato scorso ha tirato fuori un’altra bella sorpresa cinematografica: Umberto D. (1952) per la regia di Vittorio De Sica. “Capolavoro del cinema neorealista” per Morandini, è un film sulla solitudine dell’anziano, che non arriva alla fine del mese, e che ha quale unico amico il proprio cane. Si chiama Flaik, Umberto D. fa di tutto per abbandonarlo, ma non ci riesce: è parte di lui. Il film quando uscì fu osteggiato dall’allora sottosegretario al cinema Giulio Andreotti con una celebre stroncatura: “i panni sporchi si lavano in casa”. Vietato raccontare la storia di un vecchio, tra l’altro ex funzionario di ministero, economicamente indigente. Un po’ come fa oggi il premier: a tutti raccomanda di sorridere, anche se la crisi impera. De Sica invece andò oltre (quanti registi oggi lo farebbero?), e prese quale protagonista un anziano borghese (Carlo Battisti) che attore non era. Memorabile la scena dell’elemosina davanti al Pantheon.

IL BEATLES DEL PALLONE

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Non conoscevo la storia di Luigi Meroni, il giocatore del Torino degli anni ’60. L’ho conosciuta in un bel servizio che gli ha dedicato il programma di Giovanni Minoli, “La storia siamo noi” (visibile sul sito www.lastoriasiamonoi.rai.it ). Bel modo di presentare il calcio. Non limitato al solo giocatore, bensì specchio di un intero periodo. Quello degli anni ’60. Meroni, giovanissimo doveva andare all’Inter, sua madre si oppose (come sono cambiati i tempi!). Andò al Como, Genoa, poi Torino. Portava i capelli come i Beatles, conviveva con una spostata. Non era ben visto nel calcio conformista di allora. I tifosi lo adoravano per la sua estrosità. Lo voleva la Juve, ci fu una mezza rivoluzione in città, rimase granata. Triste il finale della “sua partita”, a 24 anni: fu ucciso investito da un’auto guidata da Attilio Romeo, sul cruscotto aveva la sua foto. Trentatre anno dopo sarà presidente dei granata.

IL COMANDANTE DI VARESI

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Una rapina in un bancomat. Un morto trovato lungo il Po. Un ex comandante partigiano, trovato anch’egli morto in casa, dimenticato da tutti. Tre fatti apparentemente senza collegamento. E invece uniti da un comune filo. A tracciarlo è stato il giornalista Valerio Varesi nel romanzo “ La casa del comandante ” (Frassinelli, 2008, pp. 280), nuova avventura del commissario Soneri. Un commissario salito agli onori delle cronache grazie al serial tv interpretato da Luca Barbareschi e Natasha Stefanenko. Non male il romanzo di Varesi: più thriller poliziesco, anziché giallo. Soprattutto nell’amalgamare la storia con il paesaggio, quello della Bassa emiliana, contraddistinto dal lento fluire del Po. Se non ci fosse di mezzo quel fiume parrebbe di essere di fronte a un romanzo di Simenon, tanto sono cupe le atmosfere, nebbiosi i paesaggi. Nella storia non mancano alcuni riferimenti all’oggi, come l’avversione per lo straniero e il modo ribelle di leggere la società attuale.

IL FEDERALE

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Uno dei pochi canali che ancora non ha abdicato nella programmazione dei film è La 7. Non solo continua a darli, addirittura lo fa in orari “accessibili”. Finanche il sabato con la bella iniziativa “La valigia dei sogni”, sul cinema italiano. Per esempio ieri sera c’è stato “Il Federale” per la regia di Luciano Salce con Ugo Tognazzi. Realizzato nel 1961 è uno dei primi film del dopoguerra a parlare del ventennio fascista. Lo fa sotto forma di commedia all’italiana, mischiando il riso alla riflessione. Non è un film di denuncia, né tanto meno documentarista, bensì di satira. D’altronde come non sorridere di fronte a un fascistello fanatico (Tognazzi) che corona il sogno di divenire federale proprio quando il fascismo cade. Come se Berlusconi venisse riconosciuto uno statista tutto tondo proprio in letto di morte. Dimenticavo, qui siamo alla fantascienza pura.